L’anno di Marco

“L’anno di Marco – passeggiata nel primo vangelo di un uomo di poca fede” non è facilmente definibile, non è un romanzo, non è un saggio e neppure un’opera di esegesi.. E’ una mia “escursione” nel primo vangelo. Sono appunti di viaggio, scritti cammin facendo. Un pro memoria nato dalla necessità di non smarrire per strada impressioni, pensieri vaganti e sensazioni nate dalle brevi letture quotidiane fatte durante il 2006-2007. Non ho alcun titolo per parlare di questi argomenti, neppure quello che deriva dalla fede. Mi ha spinto la considerazione che i Vangeli sono libri di tutti e di ognuno. Non sono riservati ai cristiani e neppure ai credenti. Anzi, nello stile del personaggio di cui raccontano la storia, sono rivolti soprattutto agli esclusi, ai lontani, a chi si sente fuori da ogni appartenenza religiosa. E sono una bellissima lettura… Scritto nel 2006-2007, pubblicato a marzo 2009

Incipit

Il 2006 è di nuovo l’anno di Marco.
L’avevo già letto nel 2003, poi il 2004 era stato l’anno di Luca e il 2005 l’ho dedicato a Matteo. Giovanni non l’ho ancora affrontato seriamente, è un osso duro per la mia testolina annebbiata, devo ancor prendere bene la rincorsa coi sinottici.
Una rilettura, quindi, o meglio, una nuova lettura, perché con questi testi non si ha mai l’impressione (caso assolutamente unico in quel che definiamo letteratura) del già visto, del già sentito.
I vangeli sono i soli libri che non ho mai finito di leggere, che mi danno sempre un senso di incompiuto, mi obbligano a ritornare continuamente indietro, a riprendere da capo. Stanno su un ripiano della libreria a portata di mano, posso raggiungerli senza neppure alzarmi o sporgermi troppo.
Dopo l’ascolto spezzettato nelle liturgie della giovinezza e la ripresa sporadica nella mia scettica e agnostica maturità, ho iniziato da qualche anno una rilettura sistematica e lenta, a cadenza più o meno quotidiana.
Il “più o meno” sta ad indicare che studiare e meditare queste pagine è per me una piacevole abitudine che non deve mai assumere il colore grigio dell’impegno preso.
Prendere un libro in mano, qualsiasi libro, dev’essere un piacere; trasformarlo in dovere significa uccidere qualunque testo, vangeli compresi. Leggere, dice Pennac, è verbo con un’avversione per l’imperativo. Concordo con lui, anzi, credo che l’intero modo verbale che traduce la voce umana in comando debba essere sempre coniugato con estrema parsimonia o addirittura escluso del tutto dalle nostre grammatiche personali.
Così, leggo quando ne ho voglia, ma questo avviene quasi con frequenza giornaliera, probabilmente molto più spesso che se avessi preso con me stesso un impegno solenne.
Il piacere è una molla efficace, un buon motore per le nostre azioni. Con il carattere un po’ anarchico che mi ritrovo, è sicuramente molto più efficiente e produttivo del mio precario senso del dovere.
E poi, mi convinco sempre di più che una ricetta per vivere bene sia proprio trovare gusto nelle attività quotidiane, dall’andare a scuola in bicicletta al segare la legna, dal fare il pane o la birra alla lettura di un libro.

Post scriptum tardivo

Post scriptum tardivo, questo, messo giù in fretta a bozze già impaginate e corrette;
a riprova del fatto che il mio Anno di Marco lo pensavo destinato a un placido sonno nello scaffale o, al massimo, a passare fra le mani di pochi amici pazienti e comprensivi.
Ma devo comunque aggiungerla, questa postilla conclusiva, anche se “fuori tempo massimo”, almeno per simmetria con tutti gli altri miei racconti diventati libro: il punto finale di una storia è un distacco troppo brusco, devo sempre attaccarci almeno una spiegazione, un saluto e un grazie per chi ha avuto la cortesia e la pazienza della lettura.
Chi arriva al fondo di un libro può vantare un credito con chi l’ha scritto e fra i due protagonisti della chiacchierata, l’autore ed il lettore, si instaura una relazione di conoscenza, una sorta di intimità o di amicizia che richiede almeno un cenno di saluto.
In questo caso, poi, la spiegazione finale è particolarmente doverosa.
Perché l’Anno di Marco non è un romanzo o un testo di narrativa. Non è neppure un saggio (nome che presuppone saggezza o almeno competenza). Non è un’opera di esegesi e neanche una sorta di meditazione o riflessione (il primo termine mi fa pensare a una specie di sforzo muscolare, un aggrottare la fronte alla ricerca della necessaria concentrazione, il secondo all’inutilità un po’ narcisistica dello specchiarsi cercando in uno scritto il riflesso delle proprie idee).
E’ piuttosto un resoconto di viaggio; solo che invece di gironzolare per monti e valli questa volta vado a spasso in un testo.
E non in un testo qualsiasi. Nel Vangelo di Marco, la prima delle quattro storie che pretendono di regalarci il ritratto di quell’Uomo straordinario che la mia amica Eva definisce, con una delle sue immagini poetiche, “camminatore di Galilea”.
Marco si fa cronista di questi spostamenti di Cristo e ci invita a seguirlo, a unirsi alla carovana.
La mia è quindi una passeggiata lenta, lunga quasi due anni, con appunti presi giorno per giorno, come faccio durante i viaggi in bici o a piedi. Perchè si scrive soprattutto per ricordare e il taccuino è una sorta di macchina fotografica che consente di fissare su carta, prima che spariscano, le impressioni vaganti che ci attraversano per un attimo il cervello. Io scrivo anche per pensare, mi serve la lentezza del tracciare segni su carta, la ripetitività del gesto manuale per dar tempo alle idee di formarsi. Si può anche, ma questo è già un dopo, scrivere per comunicare, per condividere. Si può dare agli appunti la forma di libro.
E, a questo punto, non posso proprio più eludere la domanda che penso venga spontanea: ma perché hai scritto questo strano libro e, soprattutto, come mai l’hai reso pubblico? Perché sei andato a spasso in terreni non tuoi, tu che non sei esegeta né studioso, che fatichi a leggere il greco e che non hai neppure una fede sicura e un’appartenenza certa.
L’ho fatto, credo, per piacere di lettore e per dovere di riconoscenza.
Ho letto Marco non da studioso e neppure da credente. L’ho letto, innanzitutto, da lettore. Perché leggere mi piace, mi aiuta a vivere e perchè in questo campo, complice anche il rifiuto della televisione e la vocazione per la vita tranquilla, posso vantare una certa esperienza.
L’ho letto per il gusto e la bellezza del leggere, di farsi prendere per mano da un autore e seguirlo.
E, visto che mi è capitato di scrivere, ho fatto pure qualche incursione dall’altra parte della barricata; mi sono, a volte, divertito a vedere l’opera con gli occhi di chi l’ha scritta. Ho cercato di scoprire la struttura celata dietro le parole. Perché lo scrivere è parente stretto del costruire, ha affinità con l’architettura più che con ogni altra attività dell’ingegno umano.
La riconoscenza è, invece, per tutta la lunghissima catena di testimoni che ci hanno trasmesso queste opere meravigliose, che hanno saputo far arrivare a noi queste parole di vita eterna.
Parole che hanno, oggi più che mai un potenziale intatto, attuale, rivoluzionario.
Parole che possono cambiare la prospettiva di vita e il modo di rapportarsi con gli altri, prima ancora che con Dio.
Parole che sono di ogni uomo, non solo degli addetti ai lavori, dei teologi, dei prelati, dei credenti.
I vangeli non hanno copyright, nessuno può vantarne i diritti, sfruttarne il monopolio. Sono testi di tutti, di ognuno, bisogna riappropriarsene. Sono lì, a disposizione, manca solo la scritta: “servitevi da soli”.
Sono una perenne garanzia di libertà, una Costituzione a cui possiamo sempre appellarci contro tutte le deformazioni del potere religioso, contro i ritorni al passato, contro le tentazioni di chiusura, contro le commistioni di sacro e profano, le ingerenze, i moralismi di bassa lega.
Sono lì, Parola che non passerà, contro tutte le innumerevoli parole destinate a passare disperse al vento da chi seppellisce il Lieto Messaggio in un diluvio di norme e divieti.
Sono lì, parole di misericordia e comprensione contro tutti quelli che sanno solo pronunciare frasi di condanna ed esclusione.
Sono lì, parole di libertà e di conforto contro tutti i tentativi di ingabbiare quello Spirito che ha la forza anarchica del vento.
E sono lì soprattutto per noi, gente di poca fede e ancor meno speranza, uomini e donne alla deriva nelle tempeste e nei cambiamenti epocali di questo terzo millennio, marinai senza bussola né stella polare costretti a navigare a vista dalla nebbia che ci circonda.

Il mio primo libro si intitolava Pellegrino a pedali. Anche lui “non era”, non era un romanzo, non era una guida, non era un resoconto di viaggio, non era un testo di spiritualità. Nelle ultime righe del post scriptum auguravo alla mia opera prima di servire ad invogliare qualcuno a partire.
Mi piacerebbe che il mio ultimo scritto avesse l’identica funzione di spingere qualche amico lettore a partire anche lui per la sua personale passeggiata in compagnia di Marco.

Desidero ringraziare di cuore don Giovanni Giordano, compagno di anni giovanili ritrovato come guida e amico nella maturità, oltre che per la prefazione, anche per le sue parole sempre “magisteriali” nel senso vero del termine..
Ringrazio Mambre e tutti coloro che rendono viva questa Comunità, perché mi hanno fatto capire e sperare che un’altra chiesa è possibile.
Ringrazio, come sempre, tutti coloro che hanno avuto la pazienza di leggere questo mio strano libretto e di tenermi compagnia in questa lunga passeggiata nel testo di Marco

Cervasca, febbraio 2009 lele viola