Le storie e la Storia 1,2,3

Uno
Imparare è una delle cose più belle dell’esistenza. Un piacere che non viene attenuato dall’avanzare dell’età, anzi, può essere una risorsa preziosa proprio quando il fisico comincia a perdere colpi. È anche un buon antidoto ai mali di stagione che accompagnano il passare degli anni.
Motore dell’imparare è la curiosità, il carburante è la pazienza, la condizione indispensabile è la libertà. Il tempo verbale imperativo non si addice a questa attività: per costrizione si impara male e senza alcun piacere. Per questo motivo, spesso, nei lunghi anni dell’obbligo scolastico si impara poco.
La conoscenza è un fluido, come il vino o l’olio e quindi imparare è un travaso, un passaggio. Si impara sempre da qualcuno, vicino o lontano, presente o passato. Per questo, quando si impara qualcosa, qualsiasi cosa, si contrae un debito: l’obbligo di trasmettere quanto si ha ricevuto ad altri, di continuare la catena, di non interromperla. A ogni scambio, il capitale che passa di mano può aumentare, arricchendosi delle sfumature e dei contributi personali che ognuno può aggiungere.
La storia dell’umanità è la storia di questi continui passaggi, l’evoluzione (o il regresso) dipendono dalla nostra capacità di incrementare o meno il capitale ricevuto. Ma non si tratta solo di “conservare”. La conoscenza, come la pasta che lievita, non si può conservare: deve essere continuamente rimpastata, ognuno deve metterci dentro le mani.  Ammette, come unica forma di conservazione, l’uso e lo scambio.
L’invenzione della scrittura ha permesso di annullare le limitazioni di tempo e di spazio che richiedeva la trasmissione orale del sapere: possiamo effettuare questo travaso da persone vissute migliaia di anni fa e in luoghi lontani.
Se ci pensiamo un attimo, è una cosa davvero straordinaria. Senza la ruota o il fuoco possiamo immaginare una civiltà, ma senza trasmissione scritta della conoscenza saremmo ancora nella preistoria. Senza Marco, Matteo, Luca e Giovanni non sapremmo nulla di Cristo e non potremmo risentire le sue parole. Nei primi versetti del suo vangelo, Luca spiega proprio di aver voluto trasformare i tanti racconti che già allora circolavano, in scrittura e di aver fatto per questo “accurate ricerche”. Lo scopo era fissare per sempre il profilo di una persona, prima che il ricordo, la convenienza, o la malafede lo travisasse. Il terzo evangelista sentiva tutta l’urgenza e la responsabilità del compito a cui si accingeva.
Senza andare troppo lontano nel tempo e restando sul terreno solido della quotidianità, possiamo conoscere molte cose del nostro passato dai testi conservati negli archivi di comuni e parrocchie. Se non proprio alla Storia, possiamo così avvicinarci alle storie.
Per i casi della vita, mi capita di poter dedicare tempo allo studio di antichi documenti e di poter quindi “imparare” cose che non conoscevo. Vorrei provarmi a trasmetterne alcune, prese un po’ a caso dalla montagna di materiale esistente, in un gioco fra passato e presente, fra locale e generale, fra aspetti scomparsi e altri ancora molto attuali.
Si tratta di brevi flash che prendono spunto in genere da testi trovati negli archivi dei comuni delle valli Stura e Grana, senza pretesa di completezza né di ricostruzione storica. Sono fotografie staccate, che magari, nell’insieme, possono aiutarci a capire qualcosa del nostro passato, ma soprattutto a riflettere sul presente. Perché lo scopo del volgere indietro lo sguardo non è certo quello di trovare un impossibile rifugio nel tempo che fu, ma piuttosto di vedere il cammino percorso per capire da dove siamo arrivati, dove siamo adesso e dove vogliamo andare.
Nel corso della nostra passeggiata nel passato si parlerà di tasse, di pestilenze, della nascita delle borgate, di badie, di confratrie; ma soprattutto, di beni comuni. Nel disordine del raccontare, legato alla casualità delle connessioni fra gli argomenti più che a rigorosi criteri cronologici o tematici, forse questo è il filo conduttore che può tenere insieme le diverse storie, senza alcuna pretesa di farle diventare Storia.

Due
Sullo stesso quotidiano di un giorno piovoso di inizio novembre ho letto due notizie di natura fiscale. In un articolo si comunicava che la Regione Piemonte aveva deciso di aumentare addizionale Irpef e bollo auto per evitare la bancarotta (evidentemente ci sono costate care sia le mutande verdi dell’ultimo padrone di casa, sia i brindisi letterari e i sogni di grandeur degli inquilini precedenti) e nell’altro si spiegava che l’aumento delle aliquote IVA, invece di portar più soldi nelle casse vuote dello stato, aveva generato un calo degli introiti tributari.
Nulla di nuovo sotto il sole e neppure sotto la pioggia di questo umido autunno.
Adesso paghiamo il bollo auto, nel 1700 i Savoia avevano introdotto il giogatico, cioè la tassa sugli animali aggiogati, in pratica sulle coppie di buoi o vacche da tiro. Ogni periodo storico tassa ciò che in quel momento è indispensabile ai cittadini, non certo le cose futili.
La nuova imposta su buoi e vacche era salatissima e la sua introduzione provocò nel 1732 le vivaci proteste di tutto il Consiglio comunale di Aisone che chiedeva un rinvio lamentando “le gravi miserie che corrono in questo luogo”. Il momento scelto per l’introduzione, come pare capiti spesso, non era, in effetti, dei più favorevoli.
Proprio a partire da quell’anno l’intero Piemonte patisce una grave carestia, per il susseguirsi di eventi sfavorevoli alle colture dei cereali: la produzione del 1732 è bassa, quella dell’anno seguente pessima. Nel 1734 il raccolto è quasi nullo, a causa della siccità. Finalmente, nel 1735 le rese di grano e segale sono buone, ma nelle stalle si diffonde una grave epidemia di afta. A Torino cresce a dismisura il numero dei poveri, accorsi dalle campagne per sfuggire alla fame e il tasso di mortalità subisce una forte impennata. Insomma, è proprio il momento giusto per inventare nuove imposte e assieme al giogatico arrivano nelle valli anche una tassa su arti e negozi e un generico “cotizzo personale”.
Come capitava spesso, il re Carlo Emanuele III era impegnato in costose (e per fortuna, lontane) operazioni militari e il conto delle spese lo dovevano pagare i contadini e gli artigiani delle valli, che già combattevano una dura battaglia quotidiana per la sopravvivenza
Mi sono divertito a contare gli effetti di queste nuove imposizioni, andando a spulciare nei Causati, i bilanci del comune degli anni seguenti. Non voglio tediarvi con le cifre, ma il risultato finale della geniale operazione fiscale è stato che ad Aisone in soli cinque anni, dal 1732 al 1736, si è quasi dimezzato il numero degli animali allevati, sono spariti artigiani e commercianti ed è pure sceso del 60% l’incasso del cotizzo personale, per il forte aumento dei poveri e dei miserabili.
Insomma, le nuove imposte hanno portato alla distruzione di commercio e artigianato, alla crisi dell’agricoltura e a un calo nettissimo del gettito per lo stato.
Una buona definizione di gesto stupido lo identifica come quello che causa un danno a qualcuno senza portare vantaggi al promotore dell’iniziativa e mi pare che l’esempio possa calzare alla perfezione. Qui anzi andiamo ancora oltre nell’assurdità, perché il male fatto al prossimo genera un danno anche a se stessi.
A distanza di tre secoli ci sta capitando la stessa cosa con l’Iva e le altre imposte. Basta un vecchio pallottoliere o le dita delle mani per capire che se l’aumento dell’Iva di tre punti fa scendere del dieci per cento le transazioni, non ho guadagnato tre ma ho perso sette.  L’esempio non brilla per correttezza matematica, ma fa capire all’ingrosso la dinamica delle cifre. Eppure, gli attuali governanti continuano a ripetere lo sbaglio di Carlo Emanuele III e pure la genesi dei buchi di bilancio è molto simile: allora si compravano archibugi, si pagavano milizie mercenarie e si costruivano dappertutto fortezze, ora investiamo miliardi in quei rottami volanti siglati F35 e in folli progetti di alte velocità ed altre opere faraoniche. La Regione Piemonte con i suoi sette miliardi di debiti in cassa sta costruendo un grattacielo di 42 piani. Un po’ come se uno di noi, col conto in rosso e il mutuo da pagare pensasse di comprarsi l’attico a Montecarlo o una villa a Chamonix.
La fonte da cui si attingeva allora era la medesima da cui ancora si riforniscono le casse statali, cioè in ultima analisi le tasche della gente comune.
E anche i risultati sono identici: l’aumento delle imposte in tempo di crisi portava allora e porta adesso a un impoverimento generale seguito dal calo dello stesso gettito fiscale.  Se proprio non vogliamo usare l’aggettivo stupido (riferito al gesto, naturalmente, non alle persone, che potrebbero addirittura essere in buona fede) almeno dobbiamo definire il comportamento come controproducente.
E ripetere sbagli fatti innumerevoli volte in precedenza è cosa che si potrebbe evitare. Conoscere la nostra storia dovrebbe servirci proprio a questo.

Tre
Una volta si diceva che la storia era maestra di vita. Come per ogni cosa, anche questa affermazione è oggi contestata e non entro nel merito della questione. In ogni caso, non saprei dire se sia una buona maestra o un’insegnante di scarsa efficacia, né saprei dare giudizi sul suo metodo di insegnamento. Quello che è sicuro è che noi siamo allievi distratti e svogliati, poco capaci di attenzione: non impariamo mai niente, prepariamo sempre il prossimo medioevo.
Non credo, però, che possiamo aspettarci dalla storia la risposta alle nostre domande esistenziali e neppure un effetto consolatorio o un incentivo all’ottimismo.
Anzi, la storia, come pure sua sorella minore, la cronaca, può aumentare il peso della singola esistenza e aggiungere domande sul suo significato ultimo, non ha certo la capacità di dare risposte ai nostri dubbi.
Quando apriamo un giornale o guardiamo la televisione, abbiamo davanti agli occhi un condensato in diretta di tragedie, delitti, crudeltà, disastri. Tanto da generare disperazione o, all’opposto, indifferenza. Se studiamo la storia, vediamo le stesse cose su una diversa scala temporale.
Certo, questo dipende anche dal fatto che il male fa spettacolo e cerca spettatori, mentre le cose buone hanno per definizione voce flebile e sono spesso nascoste. Ma vuol anche dire che le risposte alle domande vere non possiamo chiederle alla storia. Se mai, dobbiamo cercarle da altre parti.
Sicuramente, molte pagine del passato riflettono terribili angosce, pur nella freddezza dei numeri o nello scarno linguaggio burocratico di allora.
Nel 1630 la grande epidemia di peste ricordata da Manzoni nei Promessi Sposi ha fatto strage anche nelle nostre valli, uccidendo almeno la metà degli abitanti. Il morbo ha colpito i diversi comuni in modo poco uniforme, senza apparenti spiegazioni. Mentre a Valloriate si ammalava una sola famiglia, nella confinante Gaiola in un mese e mezzo erano morte 196 persone, quasi i due terzi della popolazione. In paese non c’erano medici, il becchino era morto e il parroco, prima di soccombere lui stesso, dovette assumersi personalmente il compito di dare una qualche sepoltura ai cadaveri sparsi per le vie.
Preti, notai, medici e becchini erano categorie professionali a fortissimo rischio. I notai, allora in numero molto maggiore rispetto ai tempi attuali, raccoglievano i testamenti standosene in strada o facendosi raccontare le ultime volontà da testimoni, i medici cercavano di tenersi a prudente distanza dai pazienti e si imbottivano il naso di erbe aromatiche. Entrambe le categorie traevano profitto dalla situazione. Demonte, comune allora ricco e rimasto senza dottori, offrì uno stipendio enorme per far venire un medico da Marsiglia, fornendogli anche il fieno per il cavallo.
Molti sacerdoti morirono, militi ignoti del loro dovere di condivisione e di vicinanza. Qualcuno, fra quelli di rango più elevato, fu meno coraggioso e tentò un’improbabile fuga, senza riuscire ad andare troppo lontano: i bacilli, batteri a bastoncino lunghi qualche millesimo di millimetro, sono notoriamente più veloci dei cavalli.
A Valgrana perirono i tre quarti degli abitanti, impossibilitati a sfuggire il morbo nelle più salubri campagne per la presenza di malviventi al servizio del terribile signore del luogo, Muzio Federico, figura ben peggiore del manzoniano don Rodrigo.
Anche comuni isolati come Castelmagno pagarono un forte tributo di vittime.
A Cervasca e Vignolo la peste fu un regalo dell’allontanamento della guarnigione militare da Cuneo, confinata per motivi precauzionali fuori città. L’arrivo dei soldati in zona aumentò la violenza del contagio, uccidendo in breve tempo oltre la metà degli abitanti.
Non migliore la situazione di Caraglio: la ridente zona della Vallera, meta oggi di merende sinoire e giri in bici, era allora un lazzaretto, fatto di baracche piene di moribondi confinati fuori paese per non diffondere ulteriormente il morbo.
Risalgono a quel periodo chiese e cappelle dedicate a San Rocco e a San Sebastiano, che vediamo ancor oggi nei nostri paesi. Passata di moda la devozione a San Giacomo, che evocava pellegrini giunti da lontano poco ben visti in tempi di contagio, ci si rivolgeva ai santi specifici considerati protettori contro le epidemie. Molte di queste nuove cappelle erano frutto di voti collettivi ed erano state costruite in tutta fretta. Avevano spesso un’architettura particolare: mancavano del muro anteriore, sostituito da una capriata per reggere il colmo, o avevano grandi aperture laterali, a forma di archi o finestre. Il motivo era di permettere ai fedeli di partecipare alle funzioni stando all’esterno, per evitare l’assembramento in luoghi chiusi e il relativo pericolo di contagio.
Anche i verbali di alcune sedute dei consigli comunali annotano che la riunione si era tenuta all’aperto, in genere sotto una grande pianta, sempre per motivi precauzionali. A dir la verità, di testi risalenti al periodo se ne trovano pochi negli archivi e sono affrettati e di difficile lettura: non c’era grande spazio per la burocrazia durante i mesi in cui infuriava il morbo. Fa anche una certa impressione toccarli, pur sapendo che eventuali bacilli superstiti dopo quasi quattro secoli dovrebbero ormai sentire gli acciacchi della vecchiaia. In realtà, poi, la malattia era trasmessa inizialmente dai roditori e ai tempi nostri, a differenza delle varie “pesti” odierne, come l’ebola, sarebbe curabile con un normale antibiotico
Passato il flagello, i sopravvissuti erano talmente pochi che il grano, sempre carente rispetto alla popolazione, era diventato improvvisamente sovrabbondante. Il prezzo dei cereali subì un crollo e la gente povera poté finalmente riempirsi la pancia. La migliore alimentazione aiutò nella veloce ripresa, e pochi decenni dopo si era tornati alla normalità demografica.
Perfino il ricordo di quei tempi di apocalisse passò in fretta, appannato da guerre, carestie e nuovi problemi che erano presto sopraggiunti a far dimenticare quelli vecchi. Qualcosa però restò ben piantato nella memoria collettiva. Quando nel 1784 il parroco di S. Anna di Castelmagno, don Ambrogio Arneodo, provò a spostare la festa di S. Rocco dalla data del 16 agosto alla domenica successiva, il paese insorse e il Consiglio comunale si riunì per spedire una lettera al Vescovo perché obbligasse il suo sottoposto a ripristinare la festa nella data corretta. Nel testo si spiegava che le funzioni solenni avvenivano “da tempo immemorabile in dipendenza di voto comunitario” e quindi gli abitanti del paese si sentivano personalmente e collettivamente impegnati col santo a mantenere fede all’impegno preso nei giorni bui della grande pestilenza e vincolati alla data precisa. Per questo, nel caso in cui don Arneodo persistesse con la “trasposizione della festa” minacciavano addirittura di ricorrere al Magistrato supremo.
Erano passati centocinquant’anni, ma non la paura della grande pestilenza.