In viaggio per archivi 10,11,12
Come abbiamo visto in precedenza, nel 1800 a Castelmagno saliva regolarmente un giudice conciliatore per risolvere le numerose liti fra gli abitanti. Così in archivio troviamo sentenze relative a un attrezzo prestato e non restituito, a minuscoli debiti non pagati, a qualche albero tagliato abusivamente. Cose talmente piccole che ora ci fanno sorridere e ci sembrano il retaggio di una società povera e delle classiche beghe di paese. Ma prima di liquidarle con aria di commiserazione, vale forse la pena riflettere un attimo sul significato di queste “curiosità”.
Innanzitutto sono la prova di una giustizia capillare e funzionante, accessibile sia materialmente che economicamente anche per la fascia povera della popolazione. Un sistema che difendeva da prevaricazioni, che era esercitato sul posto (e quindi con giudici che conoscevano la realtà locale) e che era, se non necessariamente giusto, almeno semplice e veloce. L’esatto contrario di quello attuale, studiato per garantire l’immunità di chi si può permettere costi e dilazioni, inaccessibile ai non abbienti, lento e farraginoso e lontano, anche fisicamente, dagli utenti. Il giudice allora “saliva” a Castelmagno, mentre ora sono le parti in causa e relativi assistenti a dover fare il giro dell’oca per cercarsi il “foro competente”.
Oggetto di contese così gravi da meritare la carta bollata, i testimoni e le udienze erano spesso povere cose, attrezzi che oggi ci paiono assolutamente insignificanti.
Questo non è solo lo specchio di una società povera o tanto meno gretta, vuol dire anche un tempo e un mondo che dava importanza alle cose, che era capace di creare utensili e manufatti destinati a durare e considerati importanti. Oggetti che avevano non solo una funzione, ma un’anima, che si passavano da padre in figlio, che avevano un valore d’uso che andava ben al di là del semplice valore venale.
Magno Arneodo, classe 1928, mi ha raccontato di come un anno fosse salito da Narbona di Castelmagno fin in val Maira per tagliare un larice, trasportato poi a spalle fino a casa, ridotto in assi dalla giusta curvatura e assemblato per fare una zangola (buriro). Il lavoro di un intero inverno, un’infinità di fatica, di pazienza e di abilità artigianale condensato in un attrezzo di uso quotidiano. Costruire manualmente un simile recipiente in grado di contenere liquidi senza perdite non è cosa da poco, soprattutto partendo da un albero, ma consentiva di fare il burro con meno fatica e più resa rispetto al fiasco usato in precedenza. La buriro aveva un valore per il lavoro che conteneva, per l’abilità che richiedeva e per l’uso che se ne faceva: tutte cose che andavano ben oltre la possibile valutazione commerciale.
Oggi viviamo in tempi di obsolescenza programmata, in cui tutto ha una scadenza, cose, persone, relazioni. Siamo precari che costruiamo oggetti effimeri, rapporti temporanei, relazioni instabili. Una società del vuoto a perdere, dell’usa e getta, in cui nulla è fatto per durare, tutto ha un prezzo, ma poche cose hanno davvero un valore.
Io adopero ancora gli attrezzi da falegname di mio nonno, ma mio nipote difficilmente userà la pialla elettrica che ho comprato io. Un tempo le cose attraversavano le generazioni, avevano una storia e nascevano sul posto. Erano frutto di pazienza e sapienza. Ora arrivano dall’alta parte del mondo, nascono da tecnologia anonima e sfruttamento, sono progettate per finire presto in discarica.
In viaggio per archivi 11
Fare un confronto fra presente e passato non è semplice e neppure troppo sensato e quando si fa il gioco dell’allora e dell’adesso è facile cadere nella trappola di colorare tutto di rosa o di nero, a seconda della nostra tendenza all’ottimismo ingenuo o al pessimismo cosmico. Succede così di costruirsi nella mente una falsa immagine dei tempi andati, ben diversa da quella che era la realtà. Conviene, in questo esercizio di ritorno al passato, attenersi ai dati ed evitare facili generalizzazioni. Conviene, anche, non fare troppi paragoni, resi improponibili dalla eccessiva diversità di condizioni, di tecnologia e di mentalità.
Di certo, nessuno di noi si adatterebbe più alle condizioni durissime della vita di un tempo in montagna. L’esistenza non era tutta poesia, allora, nelle nostre borgate. Dai dati del censimento del 51 si vede che anche in quei periodi relativamente recenti c’erano situazioni di povertà estrema. In bassa valle Stura una famiglia di 11 persone viveva in un solo vano promiscuo, una borgata con un centinaio di residenti non disponeva di alcun servizio igienico, neppure esterno alle abitazioni. Cose che ci sembrano impossibili e che spiegano l’esodo biblico che in pochi anni ha svuotato i campi e le borgate e riempito le fabbriche e le periferie cittadine, lasciandoci orfani di una civiltà e di una cultura apparentemente finita, sconfitta (o vinta, per usare l’aggettivo sostantivato che fa da titolo al libro di Nuto Revelli).
Nessuna persona dotata di buon senso e di onestà potrebbe auspicare un ritorno al passato. Fra l’altro, per sopravvivere nelle durissime condizioni di allora sarebbe necessario possedere una tecnologia raffinata che abbiamo del tutto smarrito e capacità fisiche e manuali che non ci appartengono più. Che ci piaccia o meno, siamo tutti condannati alla contemporaneità, possiamo abitare solo il tempo presente, non ci sono permessi ritorni al passato nè fughe nel futuro. Fra l’altro, questi viaggi nel tempo, al pari di quelli nello spazio, non sarebbero in grado di risolvere i nostri problemi esistenziali e di dare risposta a domande che siamo condannati comunque a portarci dietro come ineludibile bagaglio appresso e che troveremo ad aspettarci in ogni luogo e in ogni epoca.
Non ci è possibile tornare al passato. Possiamo però conoscerlo, magari amarlo, e recuperare quanto c’era di buono in quei tempi diversi dai nostri.
Possiamo e dobbiamo innanzitutto conservarne la memoria.
“Conservare la memoria” non ha molto a che vedere con le “commemorazioni” che sono spesso un modo per mettere in scatola il passato, seppellendolo con la retorica e rendendolo inoffensivo. La memoria si conserva solo applicando e trasferendo nel presente le buone cose e le buone idee che vogliamo preservare dall’oblio e mantenere vive. La memoria è fatta per prima cosa di conoscenza, ma anche questo termine deve essere depurato dalla patina di nozionismo scolastico e di superficialità. Conoscere davvero vuol dire fare esperienza, cosa che richiede ben altro che qualche lettura affrettata e non si raggiunge stando a tavolino. Ha bisogno di passione, amore e pazienza, piedi per camminare, occhi per vedere, orecchie per stare a sentire. Ma anche di queste carte ingiallite che dormono negli archivi, testimoni silenziose del miracolo della scrittura, capace di cancellare il tempo e di legare fra loro secoli, donne, uomini e storie.
In viaggio per archivi 12
La dodicesima ed ultima “puntata” di questo breve viaggio per Archivi la vorrei dedicare a due tipologie di “documenti” che in genere negli Archivi non si trovano: i bigliettini e i manifesti. All’opposto come dimensioni, hanno in comune il fatto di non essere veri e propri documenti, ma piuttosto una specie di pro-memoria. Il foglietto su cui si annotano nomi e cifre serve nella fase della raccolta dei dati, per fissare informazioni sulla carta prima di riordinarle e rielaborarle. Il manifesto serve per comunicare e rendere ufficialmente pubblica una decisione, un ordine, una notizia.
Entrambe le tipologie non rientrano nei classici documenti conservati in Archivio, (ordinati, bilanci contabili, catasti…) sono un po’ degli abusivi che si nascondono in mezzo alle altre carte più titolate, ringraziando il caso o la distrazione dell’impiegato che li ha salvati dal cestino o dal macero.
I foglietti di appunti e di annotazioni sparse sono importanti proprio perché non sono carte ufficiali e rielaborate. Ci danno una traccia del lavoro in corso, regalandoci sguardi impossibili a opera finita. Vedere una casa ultimata ci permette di cogliere il suo aspetto complessivo, ma ci nasconde tutti i particolari strutturali. Se vogliamo renderci conto di come sono fatti gli impianti e l’isolamento, quanto ferro c’è nelle fondazioni e dove passano i tubi, dobbiamo esaminare l’opera “mentre” la si costruisce. Per questo i bigliettini “dimenticati” fra i fogli rilegati di documenti ufficiali ci regalano visioni che questi ultimi non sanno più darci. A questo valore “tecnico” si accompagna, per i foglietti volanti di appunti, il fascino della prima stesura, della brutta copia. Chi ama un autore vorrebbe avere per le mani l’originale dell’opera, per condividere, anche se solo da accompagnatore casuale, il percorso creativo.
I manifesti hanno sostituito squilli di tromba e “crida” a voce alta, fatte in genere all’uscita della messa cantata domenicale “ad esclusione di ogni ignoranza”. Segnalano quindi un passaggio da una società in cui tutto o quasi era trasmesso oralmente, ad un’altra in cui la carta stava progressivamente sostituendo strette di mano e rulli di tamburo.
Nel comune di Demonte è conservato un manifesto datato 21 ottobre 1917 e firmato dal Prosindaco con la scritta: “E’ proibito di ratziare le castagne prima delli 11 di novembre p.v.” Al di là della bellezza del verbo “ratziare”, elevato addirittura alla dignità di pubblica esposizione, il divieto nasconde, in realtà, un permesso. Se è vietato penetrare nei boschi privati e raccogliere castagne prima di S. Martino, vuol dire che dopo tale data è possibile farlo con la benedizione della legge. E questo ci riporta a una società molto più solidale della nostra e ha precisi richiami biblici. In Levitico 23 si legge: “non mieterai fino al margine del campo e non raccoglierai ciò che resta da spigolare…lo lascerai per il povero e il forestiero” e in Deuteronomio 24 è scritto “Quando vendemmierai la tua vigna non tornerai indietro a racimolare: sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova”
C’è una profonda bellezza e giustizia in questo “permesso” istituzionalizzato di ratziare castagne. C’è la sacrosanta difesa dei diritti e del lavoro del proprietario, ma nello stesso tempo si riconosce un livello superiore, che va oltre il possesso giuridico. Sembra quasi che, d’accordo con i loro predecessori di qualche migliaio di anni prima, i consiglieri di Demonte tutelino il diritto e il lavoro del padrone del fondo, ma riconoscano che i frutti della terra sono anche un regalo che va oltre le carte bollate e il sudore e come tale va, almeno in parte, condiviso.
Per me questo divieto/permesso di ratziare castagne è un po’ il simbolo di una civiltà attenta alle cose, rispettosa e consapevole della fatica, ma capace di condivisione e soprattutto più semplice e ricca di buon senso.