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Una montagna sovrappopolata che, pur con una buona capacità di sfruttare a fondo le risorse e con quantità di fatica oggi impensabili, non riusciva a nutrire tutti i suoi abitanti: questa è in estrema sintesi la realtà delle nostre valli fino a novecento inoltrato. Per sopravvivere bisognava emigrare, cercando altrove quello che non si poteva trovare a casa propria.
L’emigrazione stagionale è sempre stata un fenomeno connaturato con le caratteristiche dell’agricoltura montana di un tempo, che richiedeva enormi quantità di lavoro nel breve periodo estivo, ma obbligava a lunghi mesi di quasi inattività invernale. Scendere in pianura o andare all’estero nella brutta stagione era il modo per procurarsi da mangiare, ottenere un po’ di denaro e contemporaneamente occupare il tempo morto dei mesi freddi. Spesso era questione di vera e propria sopravvivenza, come ci raccontano i numeri delle produzioni agricole.
Un interessante Questionario di ben 100 domande diligentemente compilato dall’impiegato del comune di Castelmagno nel 1837 spiega che gli unici cereali coltivati erano la segale e l’orzo. Si seminavano quattro emine per giornata e se ne raccoglievano dodici, con un rapporto di produzione di tre a uno. Ogni chicco seminato ne rendeva in pratica tre, di cui uno doveva essere tenuto per la successiva semina. Per riempirsi la pancia ne restavano quindi solo due, troppo pochi per sfamare una popolazione che superava i 1300 abitanti e che non poteva andare al supermercato a risolvere le carenze alimentari.
Nel comune, pur mettendo a coltura pendii molto ripidi con giganteschi lavori di terrazzamento (couagnes) e pur sfruttando ogni millimetro di terreno disponibile (il testo dice che “non vi è apparentemente altro terreno sodo che potrebbe coltivarsi”) in quell’anno si erano prodotte solo mille emine di segale e altrettante di orzo (180 quintali). Per mantenere tutti i residenti ne sarebbero servite cinque volte tanto.
Una matematica semplice, che però allora significava la pancia vuota e magari la morte per fame. Logico quindi scendere a valle per offrire il proprio lavoro in cambio di cibo e di qualche soldo. Già i piccoli censimenti allegati agli Ordinati di fine settecento riportano numeri significativi. Ad esempio, nel 1778 in inverno gli assenti erano 210, un quinto della popolazione. Andavano in giro per il Piemonte a fare “i ronchini” cioè i potatori o taglialegna e nella capitale Torino a offrire i proprie servigi come “cabassini”. La cabassa è il nome occitano della gerla e la parola si potrebbe tradurre con “facchini” o uomini di fatica. Portavano soprattutto legna, carbone e altre merci e di sicuro le scale dei palazzi torinesi non avranno impensierito gente abituata ai pendii da ramponi e piccozza dei valloni di Narbona, di Cauri o di Riolavato.
Nel 1700 si trattava ancora esclusivamente di emigrazione stagionale, legata alla necessità di trovare occupazione e mantenimento nei mesi invernali ed era diretta in campagne e città del Piemonte. Una risposta del Consiglio a una richiesta del Governatore di Cuneo del 1779 conferma che non vi è nessuno nel comune che intenda “assentarsi dagli stati di Sua Maestà o recarsi nei paesi stranieri”. Progressivamente, nei periodi successivi l’emigrazione aumenterà il suo raggio, puntando sovente all’estero e, soprattutto nel novecento, si trasformerà da temporanea a definitiva.
Le stesse dinamiche migratorie le possiamo trovare in tanti altri comuni anche delle basse valli. I Censimenti di Valloriate, ad esempio, ci mostrano numeri impressionanti. Nel 1901 gli assenti temporanei al rilevamento erano 270, pari al 18,6 % della popolazione, nel 1931 ben 724, il 43 % dei residenti. Con l’avvento del regime fascista era più difficile ottenere il permesso di espatrio. Ne fanno fede le molte domande di richiesta o rinnovo di passaporti conservate in Archivio, in genere con risposta negativa. Chi voleva recarsi in Francia doveva dimostrare, oltre che di essere buon cittadino, di non avere pendenze e di aver fatto il servizio militare, anche di aver intenzione di tornare. Spesso era difficile ottenere il passaporto anche per mogli, figli, genitori o fratelli di emigrati desiderosi di rivedere i parenti prossimi.
Queste difficoltà burocratiche hanno senz’altro incentivato l’immigrazione clandestina, in certi periodi tollerata dalle autorità francesi, in altri contrastata duramente. La salita notturna ai colli di confine, fatta spesso in stagione ormai avanzata, era faticosa e spesso molto rischiosa e ci sono diversi casi di morti per assideramento o incidenti di percorso.
Cambiano luoghi, tempi e scenari, ma queste vecchie storie d’archivio hanno purtroppo ancora sapore di attualità.
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Chi usa gli occhiali rosa per vedere il passato e quelli neri per presente e futuro rivela una strategia esistenziale poco funzionale alla felicità, oltre che di avere un’idea approssimativa e stereotipata della storia. Spesso la tendenza è legata alla propria parabola calante e al tentativo di coinvolgere l’intero universo nel proprio personalissimo declino. A titolo di esempio, noi sessantenni con un presente di acciacchi crescenti ed energie calanti e un futuro che assomiglia pericolosamente a un piano inclinato, abbiamo la tentazione di dire che un tempo tutto era meglio, semplicemente perchè un tempo “noi” eravamo migliori e i nostri giorni più pieni e ricchi di prospettive.
I “tempi” son sempre duri e insieme promettenti, ogni epoca regala speranze e fatiche, delusioni e promesse. La “felicità” è qualcosa che va oltre quel che ci succede o quel che ci capita intorno e non appartiene a nessun particolare periodo o posto geografico.
Fatta questa premessa sui rischi di descrivere il passato come un luogo magico e felice (ma lo studio imparziale e approfondito dei documenti d’archivio ci guarisce in fretta da questa tendenza, figlia di superficialità e ignoranza) si deve però ammettere che certe cose, una volta, funzionavano davvero molto meglio.
La vita era sicuramente più semplice, più sobria, più lenta. La società era più unita, le disparità erano minori. Il tempo più scandito, meno uniforme, con alternanza di momenti di lavoro e di festa ben differenziati. Certo, potrei elencare altrettanti aspetti molto negativi, ma non si tratta di fare confronti o bilanci.
Senza entrare in questo gioco dell’allora e dell’adesso, vorrei soffermarmi su un aspetto del passato che ci dovrebbe far riflettere. Partiamo anche stavolta da alcuni documenti di Archivio, apparentemente molto diversi fra loro.
Nell’Archivio di Rittana è conservato un “Foglio di statistica degli alunni” compilato in bella grafia dai maestri nell’anno scolastico 1899-1900 relativo alla scuola di Tetto Sottano. Il questionario chiedeva: “Quanti abitanti non possono usufruire della scuola esistente?” e la risposta era: “Nessuno”. Analoga risposta ad altre domande relative all’impossibilità di frequenza per povertà assoluta o per eccesso di distanza dall’edificio scolastico. Rittana aveva allora quattro scuole elementari situate in posizioni strategiche per permettere ad ognuno dei 110 bambini in età d’obbligo scolastico di partecipare alle lezioni. Un buon numero di ragazzi continuava a frequentare le classi anche dopo i dieci anni, e quindi senza più esserne obbligato, portando a ben 266 la cifra degli iscritti.
Molto simili gli esempi che potrei trarre dagli Archivi di Demonte, di Valloriate e di Castelmagno. In questo comune sono conservate diverse lettere dell’Intendente generale (autorità simile all’attuale Prefetto) che insistono perchè si costruiscano le scuole e si assumano i maestri “dovendo premere al Consiglio che non si aumenti l’ignoranza con danno grave della popolazione.” E in altra lettera si insiste sull’argomento: “essendo precisa intenzione del Governo che non sia menomamente trascurata la pubblica istruzione”.
Rimaniamo a Castelmagno e facciamo un salto di una cinquantina d’anni, arrivando al 1937-39. Se si sfoglia il registro dell’Ufficio del Giudice conciliatore, si possono leggere le cause, le liti e le citazioni. Piccole somme e richieste di risarcimento che ora ci fanno sorridere: 15 lire per una balla di fieno, 25 per un paio di tenaglie prestate e non restituite, 12 per la “copertura di una vacca”, 25 per l’affitto della macchina da battere a manovella, 35 per 2 “banastre” vendute e non pagate. Il tutto annotato con tono molto formale: l’attore, il convenuto, il contumace, i testimoni; col tentativo di arrivare a una conciliazione e con l’eventuale sentenza finale.
Cos’hanno in comune questi documenti, così diversi in apparenza?
Niente, a parte il fatto che scuola, giustizia e molto altro, allora aveva una dimensione strettamente locale, nel senso che arrivava nel posto in cui la gente viveva.
Lo stato di fine ottocento e inizio novecento, molto più povero del’attuale e meno esoso come fiscalità, riusciva a portare scuole e maestri nelle borgate più sperdute e a far salire un giudice nei comuni più lontani. Adesso si “accorpano” scuole e tribunali, si chiudono ospedali e si tagliano “rami secchi” di ferrovie e autolinee.
In altre parole, si uccide la campagna e la montagna.
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Storia e geografia sono strettamente connesse e se andiamo indietro nel tempo dobbiamo immaginarci un territorio molto diverso da quello che conosciamo. Può sembrare una banalità, ma se pensiamo a com’erano i nostri paesi anche solo all’epoca della nostra infanzia, ci rendiamo conto di quanto possa cambiare lo scenario che fa da cornice alle nostre vite in un breve arco di tempo. Se non caliamo la storia in quello che doveva essere l’ambiente che la ospitava rischiamo di non cogliere lo sfondo, che in un quadro o in una fotografia è almeno altrettanto importante dei primi piani.
Demonte nel 1800 aveva ottomila abitanti, mentre Borgo S. Dalmazzo ne contava appena la meta. Le borgate più ricche di Castelmagno erano quelle più alte, Chiappi e Chiotti, mentre in quelle “basse” la vita era senz’altro più difficile. Alla stessa maniera, le alte valli erano favorite rispetto ai paesi di bassa valle. Lo testimoniano i dati di archivio, con le loro cifre relative a popolazione, animali e tassazione, lo dimostrano visivamente anche i fabbricati, molto più imponenti e spaziosi in quota rispetto a quelli situati a minor altitudine.
La distanza dal fondovalle e dal capoluogo non era un fattore determinante, com’e adesso. Soprattutto, i dati degli Archivi testimoniano il fatto che un tempo nelle valli vi fosse una società diffusa che abitava e presidiava capillarmente il territorio. Il contrario dell’epoca attuale, caratterizzata da una forte tendenza (a mio personale parere suicida) alla concentrazione. La popolazione in montagna era molta, ma soprattutto era sparsa. Comuni relativamente piccoli come superficie avevano decine di borgate, spesso molto distanti dal concentrico. Valloriate, ad esempio, ne contava quarantadue, Roccabruna addirittura una novantina. E in molti casi le borgate più grosse erano lontane dal fondovalle e i rapporti commerciali e sociali erano spesso intervallivi e seguivano logiche diverse dalle attuali. Adesso ci si muove sempre verso il basso, come spinti dalla forza di gravità, allora sentieri e mulattiere disegnavano una complessa rete di percorsi che raggiungevano ogni piccola porzione di territorio, rendendola vitale, come fanno i vasi capillari nel corpo umano.
Questa diffusione degli abitanti aveva molti motivi, che sarebbe lungo indagare. Ma era anche dovuta al fatto che lo Stato di allora, pur con tutti i suoi difetti, era molto più attento di quello attuale alle situazioni decentrate.
Lo Stato dell’ottocento cercava di portare i servizi ovunque vi fossero cittadini, mentre adesso sono i cittadini che si devono muovere per cercare di raggiungere i servizi. Una filosofia capovolta e perversa, contrabbandata come razionalizzazione che nasconde una visione mercantile, imprenditoriale e a lungo termine perdente dell’ente pubblico.
Uno Stato che prende molto e restituisce poco, incapace di programmazione di lungo periodo e di stabilità normativa, che preferisce buttare miliardi in grandi opere di dubbia utilità che garantire i servizi capillari alla popolazione. E pensare che piccoli interventi localizzati avrebbero ricadute occupazionali positive mille volte migliori di cacciabombardieri, tunnel e linee ferroviarie avveniristiche.
Un ente pubblico, fra l’altro, che si comporta da cattivo proprietario, trascurando del tutto la manutenzione del suo patrimonio e delle opere esistenti e che sembra lasciare all’improvvisazione la gestione della perenne emergenza contabile. E che tappa i buchi di bilancio svendendo a privati il proprio (anzi, il “nostro”) patrimonio: edifici, terreni, boschi, spiagge, beni artistici.
L’Intendente Generale nel 1800 controllava con attenzione scrupolosa, perfino pignola, i conti dei comuni, le spese, i rimborsi, i ricavi degli affitti di beni pubblici.
In una dura lettera del 16 maggio 1843 con oggetto: “legna rubata” l’autorità provinciale accusa gli amministratori di un comune montano di colpevole negligenza per non aver vigilato sul proprio patrimonio boschivo: “il riferitomi fatto ricade per anco a peso di Signori Amministratori Comunali i quali non si curano di vigilare sui devastatori dei boschi e non provvedono in modo che gli agenti salariati del Comune per tale servizio compiano il dovere loro”. Il Sindaco dovrà anche informare la guardia campestre che qualora non si dimostri più solerte nel suo compito “non solo sarà rimosso dal suo impiego, ma inoltre sarà sottoposto alla massima punizione.”. Inoltre dovrà “praticare le più accurate indagini per discoprire i rubatori della legna che era stata tagliata nei boschi comunali e informare a suo tempo questo Ufficio del risultato delle sue investigazioni”
Una lettera successiva autorizza il Sindaco “a vendere a licitazione privata le otto carra di legnami stati clandestinamente recisi nel bosco detto del Nicolà. Di tale vendita se ne farà risultare da regolare Ordinato da trasmettere all’approvazione di quest’Ufficio.”
Pochi quintali di legna tagliata abusivamente in un bosco comune facevano muovere allora le autorità centrali, mentre adesso si vuole affidare a privati la gestione dell’acqua e vendere beni demaniali come le spiagge per tappare (provvisoriamente) le voragini contabili.