Piazze e tangenziali
Con piazza foro Boario ho un rapporto d’affetto che risale ai lontani anni sessanta.
I muggiti dei vitelli scaricati dai camioncini mi hanno fatto compagnia per cinque anni alternandosi alle voci dei professori nelle classi del seminario adiacenti alla piazza. Solo un vetro sottile, d’inverno velato di umidità, e le sbarre d’ordinanza ci separavano da bovini, commercianti e macellai. Provavo simpatia e una sorta di inconscia solidarietà per i quadrupedi legati con corte catene. Forse, a pensarci adesso, era la sensazione di condividere spazi ristretti e percorsi obbligati, noi nel rigore silenzioso del collegio di quei tempi ormai lontani, loro nei pochi passi che separavano la stalla dal macello.
Mi è spiaciuto quando hanno abbattuto tettoie, muretti, spianato gradoni, tolto il calatà.
Cuneo era cresciuta e, come quelle ragazzotte di campagna che trapiantate in città si vergognano delle origini contadine, non poteva più sopportare la vista e gli odori dei vitelli. Bovini, allevatori e commercianti sono stati deportati in periferia, lontano dagli sguardi dei passanti, condividendo la sorte di molti esseri umani – piccoli artigiani, commercianti, residenti – anch’essi allontanati a forza dal centro storico.
Scelta dettata dall’urgenza di modernità, dal provincialismo, dal dio igiene, dalla cattiva coscienza di chi preferisce mangiarsi la bistecca senza dover incrociare lo sguardo del vitello condannato a finire nel piatto.
La metamorfosi di piazza foro Boario, da mercato del bestiame (ieri) a parcheggio a pagamento (oggi) a finto parco cittadino (magari domani) mi sembra emblematica dei cambiamenti che hanno trasformato la nostra Cuneo da accogliente paesone di campagna a pretenziosa cittadina con l’aria un po’ snob e scostante.
Altre città di analoga estrazione agricola (mi vengono in mente molti paesi della Francia centrale, ma anche della Svizzera e dell’Austria) si sono tenute ben strette fiere e mercati del bestiame, esibendo con orgoglio le proprie origini contadine, come preziosi segni di distinzione in un mondo sempre più piatto e globalizzato. Ma si sa, un aspetto deleterio del provincialismo sta proprio nel vergognarsi delle proprie radici e nel barattare la credenza in noce di famiglia con il pensile di formica e truciolato.
Non mi era piaciuta la trasformazione della piazza in parcheggio, mi piace poco e non mi convince per niente il tentativo di resurrezione dell’area con l’intento sbandierato di farla diventare uno spazio verde incastrato fra i palazzi.
I motivi di queste mie perplessità sono molti.
Innanzitutto, credo che una piazza sia bella per ciò che ha intorno e per il vuoto che ha al centro. E’ il caso, ad esempio, di piazza Galimberti, mentre, all’opposto, piazza Europa, nonostante alberi, panchine e fontane ricorda piuttosto un cortile condominiale un po’ cresciuto. L’ansia di riempimento uccide l’essenza stessa di piazza, come è avvenuto, ad esempio, in piazza Boves, la cui bella cornice di palazzi antichi è neutralizzata dalla baraccopoli centrale di basse costruzioni. Nel caso del Foro Boario il contorno è in parte compromesso e non credo che piante o infrastrutture possano migliorare di molto il quadro.
Penso che gli alberi sia meglio lasciarli stare nei boschi e nella campagna, non costringerli a vivere la vita artificiale delle città, dove intristiscono e rendono tristi. Un conto sono gli enormi parchi urbani del nord Europa, bellissimi e funzionali polmoni verdi che danno una dimensione “naturale” alla città con ridotti costi di impianto e manutenzione, un altro i ritagli di verde artificiale, dispendiosi nella creazione e nella gestione e con funzione più consolatoria che reale.
In campagna piantiamo capannoni e villette, seminiamo rotonde e tangenziali. In città costruiamo finti angoli bucolici comprando a caro prezzo alberi di vivaio per illuderci di vivere nel verde. Salvo poi accorgersi che l’erba ha la brutta abitudine di crescere e che tagliarla costa di più che spruzzare diserbante. E che gli alberi vanno potati, soprattutto quelli nati in cattività.
E questo rimanda ad un altro aspetto, non meno importante: quello dei costi. Ogni progetto pubblico sembra fatto apposta per spendere molto e realizzare, tutto sommato, poco. Al contrario del buon senso e della logica, quella usata da tutti noi obbligati a destreggiarci fra spese sempre crescenti e entrate precarie o aleatorie. Il famoso rapporto costi benefici che dovrebbe guidare ogni pubblico investimento è sempre dimenticato o al massimo ridotto a teorica esercitazione burocratica.
Se si cercassero soluzioni semplici e poco costose sarebbero inutili nuove e antipatiche forme di tassazione occulta, tipo strisce blu e parchimetri e il comune potrebbe tornare a ricordarsi del significato originario del termine da cui prende nome: fra i beni comuni, ci sono anche gli spazi e la loro gestione. E magari potrebbe pure optare per la “crescita zero” rinunciando a un po’ di entrate sotto forma di oneri di urbanizzazione e tasse sugli immobili e lasciare campagna e alberi dove si trovano.
Tutte queste considerazioni e perplessità (molto personali e opinabili, ci mancherebbe) non vogliono essere una proposta, ma semplici spunti di discussione per una decisione – quella della piazza – che deve essere preceduta da un dibattito su quale idea abbiamo e quali prospettive pensiamo per il centro storico.
La mia personale opinione, per quel che può valere, è che sia importante svuotare i centri storici dalle troppe macchine, ma non dalla gente e dalle attività lavorative. Per fare questo ci vuole la crescita della coscienza civica, la disponibilità a fare qualche passo, ma ci vogliono anche parcheggi gratuiti e comodi, che consentano un accesso alla zona pedonale senza doversi sobbarcare ore di trekking.
Fare i parcheggi fuori va bene. Ma fuori quanto? In estrema periferia, mangiandosi altra campagna, per poi far girare navette vuote e costruire costosissimi ascensori più o meno inclinati? E cosa si intende con la parola “riqualificazione” che sembra sulla bocca di tutti, progettisti e amministratori? Togliere il porfido per metterne dell’altro? Piacerebbe anche a me, questo termine, anche se così inflazionato, se tornasse al significato originario di regalarci una miglior qualità di vita. Che dipende certo dal colore delle facciate rifatte e dalle pietre di luserna per strada, ma soprattutto da un ambiente vitale e vivibile, da spazi accoglienti, dai negozietti, dagli artigiani, dalle scuole.
Ogni decisione pubblica importante deve essere preceduta da un reale dibattito (e i giornali locali sono il luogo privilegiato per questo scambio di idee) in modo che sia il più possibile partecipata e condivisa. Solo così c’è reale democrazia e si possono magari evitare clamorosi errori che ricadono sulla collettività. A Cuneo mi pare se ne siano collezionati parecchi, negli ultimi decenni, (ognuno può farsene un personale elenco senza bisogno di suggerimenti) e dell’Italia è meglio tacere.
Ma questo vale soprattutto per una decisione di ben altra importanza ed impatto, per cui anche il dibattito sul foro Boario passa in secondo piano: quella della tangenziale.
Un serpente d’asfalto largo una settantina di metri e lungo sette chilometri per unire una modesta strada provinciale (la SP41) con un altro serpente d’asfalto lungo venticinque chilometri e largo un’ottantina di metri (la A33) costruito per arrivare finalmente all’A6. Il raccordo autostradale che unisce Cuneo alla Torino-Savona con un bizzarro percorso a zig-zag (se ci fosse un concorso per la strada più strampalata del mondo avrebbe buone possibilità di piazzamento), in funzione da un anno e mezzo dopo decenni di tormentata gestazione e che si è mangiato quasi seicento giornate piemontesi di terreno, è semi-deserto. I dati 2012 registrano 100 mila passaggi mensili contro una media nazionale di 50 mila passaggi giornalieri: come dire che il traffico che transita in tutto un mese sulla nostra provincialissima A33 è pari a quello che passa mediamente in due giorni sulle altre autostrade.
E ora si vuole devastare la campagna cuneese per unire un’opera inutile e costosa con un’altra opera costosa e inutile. Non si tratta solo delle oltre cento giornate piemontesi di terreno fertile sacrificate sull’altare delle infrastrutture viarie, ma di una ferita irreparabile nel tessuto agrario e paesaggistico cuneese. Una linea invalicabile che dividerà aziende agrarie, strade vicinali, canali irrigui dando un colpo mortale a quel tessuto di viuzze, campi, bealere che costituiva la ricchezza del nostro territorio. Un sistema irriguo e poi viario nato nel 1400 per rendere fertile e produttiva una campagna che è sempre stata il centro vitale e la ragione di vivere della nostra Cuneo.
Non entro neppure nel discorso del Parco fluviale (e più in generale del concetto stesso di Parco, che meriterebbe ampie riflessioni) se non per constare con tristezza che quel nome può servire a tenere cani al guinzaglio e aumentare la trafila burocratica se voglio cambiare due tegole, ma non serve, invece, a fermare ruspe e scavatori quando ci sono in ballo le “grandi opere” con relativo codazzo di variegati interessi.
Grandi opere e grandi interessi (e, naturalmente, grandi intrallazzi): questo il comune denominatore di molte scelte, locali e nazionali, che pesano sul nostro futuro.
E’ urgente fermarsi un attimo a riflettere e far sentire la propria voce, riappropriandosi di quel potere decisionale che è l’essenza di ogni democrazia e che da troppo tempo stiamo dimenticandoci di esercitare.
Cervasca, 30-9-013 lele viola
Pubblicato su La Guida dell’11-10-013