Non solo (uno) spread
Spread è una parola inglese diventata di moda negli ultimi mesi e riproposta da tutti i mezzi d’informazione con insistenza ossessiva, un po’ come quelle canzonette orecchiabili che costituiscono il tormentone (e il tormento) della stagione estiva. Uno dei tanti termini stranieri che appesantiscono le nostre vite e colonizzano la nostra mente, conosciuto fin a poco fa solo dagli addetti ai lavori e usato dalle banche per calcolare le rate dei mutui a tasso variabile. L’attuale significato è però diverso, indica la differenza fra la resa dei titoli di stato nostrani e quelli stranieri, in particolare tedeschi. Cinquecento punti di spread vuol dire, in parole povere, che gli investitori internazionali preferiscono un Bund emesso dalla banca centrale tedesca col rendimento del due per cento piuttosto che un BTP italiano che ne offre il sette. Il che fotografa bene l’affidabilità e il credito della pericolante navicella Italia su cui tutti siamo imbarcati senza salvagente e scialuppe di salvataggio ed è quanto meno preoccupante.
Di questo differenziale si parla fin troppo, facendone una facile scusa per interventi drastici e ingiusti che peseranno in modo insopportabile sul nostro futuro. C’è però uno “spread” di cui nessuno parla ed è la differenza crescente fra i ricchi, pochi, e i poveri, sempre più numerosi. Una forbice che è cresciuta in modo abnorme già a partire dagli anni ottanta e che è destinata ad aumentare ulteriormente proprio per effetto di questi ultimi provvedimenti “salva Italia”.
La manovra Monti sembra infatti progettata, come le due del precedente governo Berlusconi, per diminuire lo spread fra i titoli di stato a spese dell’aumento dello spread fra classi sociali. Le associazioni dei consumatori hanno calcolato che l’incidenza dei sacrifici è quasi doppia per i redditi inferiori ai trentamila euro rispetto a quelli superiori ai centocinquantamila. Insomma, l’ennesima applicazione della consueta filosofia: meglio prendere soldi ai poveri, che sono tanti e contano poco, piuttosto che ai ricchi, che sono pochi e contano tanto. L’esatto contrario di quanto prevede l’articolo 53 della Costituzione che obbliga a una tassazione progressiva in cui ognuno paghi a seconda delle possibilità.
E’ appena il caso di ricordare che ai fini del benessere diffuso, più che la quantità di ricchezza prodotta, misurata sovente con parametri molto criticabili come il PIL, conta la sua corretta distribuzione, cioè il modo più o meno giusto col quale questa ricchezza è ripartita fra la gente. Una nazione in cui ci sono pochissimi ricchi sempre più ricchi e moltissimi poveri sempre più poveri appartiene di fatto al terzo mondo e noi siamo sulla strada giusta per arrivare presto a far parte del club.
Grazie anche a queste manovre, che dovrebbero salvarci dal naufragio e ad anni di acrobazie contabili fatte da timonieri imprevidenti che hanno portato la barca sugli scogli. Ne cito una, presa a casaccio dal mucchio, ma in tema col discorso precedente. Lo stato italiano si è finanziato sempre di più con la continua emissione di titoli, i famosi BOT, CCT, BTP. Un tempo gli acquirenti erano gli stessi cittadini della Repubblica, attirati da convenienza e sicurezza: il debito restava, per così dire, in famiglia. Nel corso degli anni, invece di pensare a ripagare il dovuto e ridurre il deficit, si è allegramente aumentata la voragine credendo di poter continuare il gioco all’infinito. Finchè i risparmi degli italiani non sono più bastati e dalla prima metà degli anni novanta lo stato ha deciso di puntare sul mercato internazionale. Risultato: oggi quasi la metà del debito è in mano a soggetti esteri; che, preoccupati dalla nostra cronica inaffidabilità e spinti dalla crisi rivogliono indietro i soldi prestati, vendendo in massa i nostri titoli. Così, per l’inesorabile legge della domanda e dell’offerta, i nostri BTP valgono sempre di meno ed il Tesoro è costretto ad ogni nuova emissione a offrire cedole sempre più vantaggiose, aumentando le dimensioni del buco. Esattamente come capiterebbe a un debitore sciagurato e spendaccione costretto a ricorrere agli usurai in un crescendo di sventure create dal suo stesso atteggiamento dissennato.
Tutto questo non è frutto del caso, ma di decisioni sbagliate protratte nel tempo. Il problema è che il conto degli errori non arriva mai ai colpevoli, ma sta ricadendo su tutti noi, in modo inversamente proporzionale alle responsabilità e alla ricchezza posseduta. Aumento spropositato delle imposte, pensioni che si allontanano come miraggi evanescenti rendendo la vita dura agli anziani e impedendo l’accesso al lavoro dei giovani, povertà sempre più diffusa col suo corollario di disagi e tensioni sociali, l’ombra nera di una crisi crescente e senza sbocchi sul prossimo futuro.
Una manovra ingiusta, oltre che pesante e recessiva, che finirà per aumentare il solco che separa le classi sociali. Un differenziale fra ricchi e poveri destinato a crescere in misura ancora maggiore se si considera che alcuni provvedimenti che sembrano colpire i grandi patrimoni sono di fatto poco applicabili. E’ il caso del micro-prelievo sui capitali ripuliti col vergognoso scudo fiscale berlusconiano, su cui era garantito l’anonimato. Non sarà certo facile rintracciarli: ciliegina sulla torta di un bel regalo ai grandi evasori. E barche, aerei e superauto sono in genere intestati non ai singoli, ma a società con sedi magari in posti stravaganti e poco raggiungibili dal fisco. I veri ricchi sanno come stare al riparo da tributi, imposte e balzelli: loro non hanno neppure bisogno di evadere le tasse: le eludono, cioè trovano sistemi legali per non pagarle.
Certi provvedimenti sembrano quindi avere la funzione di specchietti per le allodole, per dare una falsa impressione di giustizia. “Finalmente una manovra che colpisce anche i ricchi” ha detto soddisfatto D’Alema, non si sa se per propria inguaribile ingenuità o prendendo tutti noi per ingenui.
Ma restando in tema di “spread” crescenti e poco pubblicizzati, un’altra differenza preoccupante è quella fra la pressione fiscale e i servizi resi ai cittadini. L’anno scorso eravamo, in questa poco simpatica gara al fisco più esoso, in seconda posizione mondiale, dietro alla Danimarca. Con la tripletta di manovre del 2011 forse raggiungeremo il primo gradino del podio. La cosa sarebbe anche tollerabile se al crescere dell’imposizione crescesse anche la qualità e la quantità delle prestazioni offerte ai cittadini.
Peccato che stia capitando esattamente l’opposto. Sanità, scuola, assistenza sociale, previdenza: dappertutto tagli, ticket, riduzione di personale.
Insomma, in Italia abbiamo una pressione fiscale da stato scandinavo e una qualità dei servizi da paese sottosviluppato: un’accoppiata davvero vincente. Con una imposizione fiscale teorica attorno al cinquanta per cento (dato che cresce per chi le tasse le paga tutte, visto che si accolla anche la quota degli evasori) viene spontaneo chiedersi dove vada a finire quest’enorme montagna di soldi incamerata dal fisco e non restituita sotto forma di prestazioni.
La risposta è inutile darla: è alla portata dell’immaginazione di chiunque.
Cervasca, 17-12-011 pubblicato su La Guida del 23-12-011