Picchiare duro

Picchiare duro
E’ passato più di un mese da quando la Guida ha pubblicato l’editoriale di Martino Pellegrino sul “picchiare più duro”. Se la validità di uno scritto sta nella sua capacità di generare riflessioni bisogna fare i complimenti all’autore: la lettura ha prodotto in me una sorta di pensiero ricorrente che mi ha accompagnato in queste brevi giornate d’equinozio divise equamente fra le angosce e i piaceri di inizio scuola e le conserve e marmellate di fine stagione.
Appena letto l’articolo mi è tornata alla memoria una frase di don Tonino Bello che riporto a senso: – delle nostre parole dobbiamo rendere conto agli uomini, dei silenzi dovremo rendere conto a Dio -. Fa il paio con l’esortazione di Atti 18,9 rivolta a Paolo: “Non temere, ma continua a parlare e non tacere”.
Un invito, quindi, a non far finta di niente, a non voltare la testa dall’altra parte. Il dovere di far sentire la propria voce, di non usare il silenzio come un comodo nascondiglio.
La spinta, quindi, anche a “picchiare duro” quando sia necessario e giustificato.
Spinta che, per il cristiano, può nascere dall’esempio della stessa figura di Cristo. Una lettura attenta dei Vangeli ce lo presenta con atteggiamenti sempre molto dolci e comprensivi nei confronti dei singoli, uomini, donne e bambini a cui si contrappongono comportamenti e parole invece dure e intransigenti verso i potenti e l’autorità, soprattutto religiosa. Come se la comprensione e la simpatia fossero in proporzione inversa al grado sociale e alla posizione gerarchica.
Fin qui sembra tutto chiaro, anche se non sempre facile o conveniente.
Mai come adesso – con la democrazia in grave pericolo, la società malata di indifferenza, i giovani frastornati e smarriti, il quotidiano smantellamento di diritti e servizi, l’attacco alla libertà di stampa e alla magistratura, il parlamento ridotto a un costoso teatrino in cui deputati e senatori si comprano e si vendono come un tempo le vacche al foro boario – sembra necessario e doveroso far sentire forte il proprio dissenso.
Mai come adesso, con la nebbia che ci avvolge, la quotidiana melassa televisiva e il fango di certo pessimo giornalismo, è necessario essere chiari con le parole, a costo, appunto, di “picchiare duro”. Uno che ruba è un ladro, uno che non paga le tasse è un evasore. Chi corrompe i giudici è un delinquente. Qualsiasi sia la sua posizione sociale, il suo incarico, le sue idee politiche. Anzi, con un rigore e un’intransigenza direttamente proporzionali all’altezza del ruolo e all’importanza della carica istituzionale.
Insomma: paiono proprio tempi adatti per “picchiare duro”.
Ma nascono subito i primi dubbi e le prime difficoltà, anche di tipo strategico.
Mettersi a gridare in un mondo di urlatori serve a poco, anzi, rischia solo di aumentare la confusione. Fare la gara a chi sbraita più forte, o la spara più grossa è deleterio e controproducente e fa il gioco di chi vuole che le acque siano sempre torbide per continuare a pescare indisturbato protetto dalla cortina di fango.
E poi tacere (come anche parlare) è verbo di per sé neutro. Assume toni positivi o negativi a seconda dei casi. C’è il silenzio distratto, il silenzio complice, ma c’è anche il silenzio necessario, il silenzio partecipe e, addirittura, il silenzio eroico. Così come c’è il silenzio pieno e quello vuoto, il silenzio gelato concimato dall’odio e quello caldo che nasce da una partecipazione che non ha bisogno di parole.
E nel parlare forte e duro può esserci esigenza di giustizia e rispetto della verità, come può nascondersi la rabbia cieca, l’odio o la smania di protagonismo. Le parole sono solo gusci vuoti, possono contenere semi di amore o di violenza. Possono costruire o distruggere.
Chi le usa, soprattutto se dall’alto di un ruolo pubblico, ha un’enorme responsabilità.
Il livello di degrado dell’attuale classe politica si misura anche con la sciatteria dei termini, con i continui insulti, con l’uso di parole volgari o di gesti vergognosi. Ci sono personaggi che paiono essersi specializzati nell’uso di parolacce o di termini infamanti. Al di là di eventuali casi clinici di persone che sembrano oggettivamente incapaci di esprimersi altrimenti per mancanza di mezzi intellettuali e culturali, si tratta in genere di un preciso calcolo: essere maleducati o usare frasi ad effetto attira l’attenzione dei media, fa parlare di sé, dà la falsa impressione di “non aver peli sulla lingua”. Questo perché, purtroppo, sovente la gente scambia maleducazione con schiettezza e interpreta come parlare franco quella che è soltanto mancanza di correttezza e buon gusto.
E i termini forti, le frasi ad effetto possono servire a mascherare il vuoto totale di risultati concreti seguiti alle solite dichiarazioni programmatiche e promesse elettorali. Anche qui vale in genere una legge di proporzionalità inversa fra la qualità del lavoro svolto e la smania di apparire, fra i fatti concreti e gli attacchi indiscriminati; insomma, fra le parolacce al vento e i risultati ottenuti.
Fateci caso: i politici che sbraitano di più sono sempre quelli che producono di meno o che fanno i danni maggiori.
Mettersi a rincorrere i cattivi esempi dei politicanti nostrani facendo la gara a chi trova gli insulti peggiori o le parole più scurrili non significa “picchiare duro”. Al contrario, vuol dire stare al loro gioco e perdersi nella spirale del chiasso generalizzato, capace di disorientare e coprire ogni nefandezza con un diffuso rumore di fondo. Menar colpi all’impazzata è spreco di energia e quasi mai centra il giusto bersaglio.
In ogni rapporto, anche fortemente conflittuale, ci deve essere, secondo me, la regola inderogabile della correttezza e della gentilezza. Non si tratta solo di “buone maniere” indossate come un vestito ipocrita per nascondere un atteggiamento di odio o diffidenza. Si tratta di una disposizione mentale positiva e accogliente, capace di gestire il conflitto non annullandolo o ignorandolo (cosa sempre pericolosa e controproducente), ma trasformandolo in occasione di crescita personale e collettiva. Un atteggiamento di autentico pacifismo che nasce dal non ritenersi proprietari esclusivi della verità, che ci fa capaci di immaginarci nei panni dell’altro e di cogliere le sue ragioni.
Perché la violenza è sempre una scorciatoia, anche quando è solo verbale. E, per di più, è strada che non porta da nessuna parte. E’ distruttiva, mai costruttiva. Affronta i problemi senza curarli alla radice. Non è mai una soluzione, al massimo un palliativo. La violenza contenuta nelle parole apre la strada a quella degli atteggiamenti e dei fatti. E non porta da nessuna parte. O meglio, porta ad acuire i conflitti trasformandoli in vere e proprie guerre.
E poi, come accenna Martino nella parte finale dell’articolo, un atteggiamento violento, in fondo, è stancante. Aumenta la già abbondante razione di stress e frustrazione a cui ci condanna questa contemporaneità che ha sostituito la competizione alla collaborazione, ha dilatato gli spazi e ristretto i tempi e utilizza la moneta come unità di misura di ogni relazione.
Dobbiamo difendere a ogni costo il diritto alla tenerezza, la tenace ostinazione della gentilezza, la forza tranquilla del parlare sommesso.
Dobbiamo ritrovare la saggezza di non vivere in perenne tensione, di non avvelenarci le giornate con rabbie che le consumano dal di dentro, che ci intristiscono e che avvelenano i rapporti.
Ma dobbiamo anche mantenere chiaro lo sguardo ed essere capaci di vedere e di parlare, non cedere al peccato mortale dell’indifferenza o alla tentazione della sfiducia.
Questa capacità di mettere insieme la dolcezza e la forza, il rigore e l’apertura non è cosa facile e non nasce spontaneamente. Richiede sforzo e allenamento. Ma, d’altra parte, c’è un sacco di gente che per professione si esercita alla guerra. Mi pare logico che anche la ben più difficile arte del costruire la pace richieda costanza di impegno e forza di volontà. Insomma, rovesciando il “si vis pacem para bellum” dei guerrafondai latini potremmo dire che “se vuoi la pace devi allenarti ad essere un uomo pacifico”.
Se non vi ho annoiato troppo condividendo con voi queste mie divagazioni nate dalla lettura di un articolo ormai remoto, avrei piacere di continuare il discorso in una prossima chiacchierata scritta. Perchè le parole di Martino, fermentate per oltre un mese, non hanno ancora smesso di venirmi a trovare e di occupare gli spazi vuoti di queste mie giornate autunnali divise fra scuola e castagne.

Cervasca, 4 ottobre 010 pubblicato su La Guida dell’8-10-010 col titolo “L’indifferenza è il vero peccato mortale”