Risposta a Beppe

Carissimo Beppe,
scusa innanzitutto se ti scrivo con una tastiera invece che con la penna. In realtà ho iniziato la risposta a mano, poi mi sono reso conto che la mia scrittura si fa sempre più illeggibile (a volte addirittura per me stesso…), soprattutto nei testi lunghi. Non so se sia colpa dell’invecchiamento o di qualche altro problema, ma la mia grafia è sempre più incerta (o forse la mano tremante riflette solo la confusione mentale).
Ho riscritto questo inizio e proseguito a macchina, preferisco la facilità di lettura e la chiarezza alla maggior simpatia del testo manoscritto e non ti voglio imporre, oltre alla pazienza e alla tolleranza sempre necessaria verso le mie incerte divagazioni, anche la fatica della decifrazione.
Mi ha fatto, come sempre, enorme piacere leggere la tua lettera. E mi ha dato, come sempre, molto da pensare. Cerco di mettere giù, come posso, qualche riflessione che mi ha suggerito la lettura, graditissima e importante, delle tue parole.
Mi spiace che certi miei pensieri ti abbiano lasciato un retrogusto acido (che per noi, produttori –tu- di vino ottimo, -io- di birra passabile, è cosa senz’altro spiacevole, quando non peccato mortale).
Mi ha dato occasione di riflettere a lungo, anche sulla responsabilità delle parole sfuggite, affidate alla voce o, peggio, alla carta, e sulla necessità di seguire i suggerimenti della lettera di Giacomo e tenere lingua – e penna- con briglia sempre corta.
Seguo sovente l’impulso, nell’incastrare parole, e posso rendermi colpevole di frasi poco rispettose o troppo precipitose. Ne chiedo scusa.
Non ho mai, però, quando scrivo, alcuna intenzione polemica o offensiva. Scrivo in fretta, senza troppi filtri mentali, la “leggerezza” di cui parli va intesa soprattutto nel senso che le mie sono parole di poco conto, messe giù senza pensarci troppo, da prendere, appunto, alla leggera. Con la penna, più ancora che con la voce, non riesco fare a meno di dire quel che penso, senza aggiustamenti dettati da convenienze o precauzioni.
Mi dispiace, se in queste chiacchierate scritte, possano essermi sfuggite frasi che risultano polemiche: non è mai intenzionale. Ho invidia per chi ha una vera fede, ho profondo rispetto per tutte le manifestazioni del credere (e del non credere), purchè oneste, libere e rispettose dell’altrui libertà.
Condivido pienamente con te l’idea che questo bellissimo e difficile viaggio che è la vita non possa e non debba essere fatto in solitudine, e che anche il percorso di fede richieda la presenza attiva e costante degli altri. La vita è tutta nella relazione e la fede non è altro che un aspetto di questa relazione.
Come te, credo sia necessaria una “chiesa”, una comunità in cui ci si sente accolti e amati, accompagnati e aiutati, sorretti e messi in discussione. Mambre, per me, ne è un ottimo esempio. Ma questa sensazione di appartenenza libera e gioiosa l’ho percepita anche altre volte, nei campi del Mir-Mn su ai Salerìn, – grazie proprio a te – negli incontri sul Camino, nel condividere cibo e parole con amici attorno a un tavolo.
Questo è, per me, il primo e principale significato della parola “chiesa”. Lo potrei tradurre come comunità, ma anche come casa, famiglia, calore, accoglienza, rifugio, comprensione, amicizia. Ma ogni traduzione, come sempre, è imperfetta e incompleta.
Nel termine “chiesa” vedo poi anche il bisogno di un aiuto, una spiegazione, un’interpretazione per tradurre la Parola in vita e adeguare la vita alla Parola. Chi si accosta con amore e onestà alle Scritture, dopo una prima, indispensabile lettura “con occhi puliti”, senza cioè commenti o spiegazioni, si rende conto presto della propria assoluta insufficienza e del bisogno di una guida.
Per questo sono grato a tutti quelli che, quotidianamente, mi aiutano a fare piccoli passi avanti nella comprensione. Di nuovo, gli amici di Mambre, alcuni amici preti e biblisti, ma anche… Beppe Marasso e Maria Chiara (ho in mente i vostri bellissimi interventi alla Scuola di Pace e tante tue preziose lettere). Questo per me è “chiesa”, questo è il significato che dovrebbe avere la parola “magistero”: un aiuto alla comprensione, una guida. Ma una guida umile, sempre offerta con la consapevolezza della propria insufficienza e distanza, sempre proposta e mai imposta. La chiesa deve testimoniare Cristo e un testimone addita sempre qualcos’altro, si fa da parte, si mette in ombra. Per definizione non è autoreferenziale, non può indicare se stesso.
Chiesa, nel sentire comune, si identifica anche con l’istituzione che ha sede in Vaticano. La mia vena latente di anarchia mi ha sempre spinto a prendere distanza da ogni istituzione, da qualsiasi forma di potere. Non posso farci niente, è nel mio carattere, nel patrimonio genetico, chissà. Le religioni, così come le rivoluzioni, nascono pure e vitali, poi si cristallizzano (diventano, appunto, istituzioni), si incrostano, si appesantiscono e degenerano. Fino a produrre i gulag e l’inquisizione.
Non so se le istituzioni siano necessarie, di certo, se lo sono, sono un male necessario. Quella dello IOR, di Radio Vaticana, dell’Opus Dei, di Ruini (e neppure del papa polacco che dà la comunione a Pinochet) non è la mia chiesa. Lo dico senza nessuna intenzione di giudicare o di offendere, con profondo rispetto per chi la pensa diversamente e per tutte le persone citate.
Ma devo comunque dirlo, altrimenti sarei disonesto.
Se per chiesa si intende un recinto, io sto comunque fuori.
Ma non è un atteggiamento diretto esclusivamente alla chiesa cattolica. Vale per ogni confessione religiosa che accampi pretese di assolutismo, che si consideri unico portavoce autorizzato del divino, che pretenda di fornirci “la” verità in pacchetti preconfezionati. Scherzando, ma non troppo, potrei dire che ho troppo rispetto per Dio per lasciarlo inscatolare nella versione precotta, liofilizzata, predigerita e non problematica che certa agiografia religiosa ci propone. E la tua citazione di Tommaso d’Aquino sulla inconoscibilità di Dio da parte del nostro intelletto mi pare che vada proprio in questo stesso senso. Che è il medesimo dell’evangelista Giovanni. Nessun uomo onesto e razionale può dire di conoscere Dio. I cristiani sanno di potersi avvicinare alla sua immagine tramite la persona di Gesù, le sue parole, i suoi modi di fare. Ma rimane un enorme spazio di mistero, una riserva infinita di punti interrogativi, una serie di domande senza risposta. E allora potrai capire il mio fastidio quando mi imbatto in qualche signor-so-tutto, che pretende di spiegarmi in dettaglio i voleri divini traducendoli in dettami pratici, sul vivere, l’amare, il morire.
Credo fermamente che religione e fede abbiano due etimologie diverse, (una lega, l’altra libera). Possono anche abitare insieme, ma non sempre senza contrasti. Quando prevale la prima senza essere sorretta e contrastata dalla seconda, qualsiasi “chiesa” si trasforma in un’istituzione totalitaria e tutt’altro che pacifica e la storia ce lo insegna chiaramente.. E non occorre neppure aprire libri di storia, basta la cronaca per ricordarci che nel mondo le religioni sono occasione di guerre, dolori infiniti e oppressioni, mascherano soprusi, maschilismo e violenze di ogni tipo.
Per questo considero la parola “teocrazia” una bestemmia e pretendo di vivere in uno stato “ferocemente” laico. Il pedaggio che la nostra società civile ha pagato in passato a una religione intesa come ghetto è enorme e sulla terra, in questo momento, milioni di uomini e, soprattutto, di donne, subiscono quotidianamente il giogo niente affatto soave di fondamentalismi di ogni tipo e colore.
Cristo, d’altra parte, è stato messo a morte da un regime teocratico, con l’accusa di voler distruggere il tempio “fatto da mano dell’uomo” – la chiesa di allora – per edificarne un altro, non fatto da mano d’uomo e quindi più interiore, libero, profondo. I vangeli possono essere letti come la continua, ostinata e, alla fine, suicida, lotta di un profeta rivoluzionario contro il potere religioso del tempo.
Soprattutto, nel leggerli, vedo l’enorme distanza di stile, fra un Cristo capace di tanti silenzi e di poche, profondissime parole e un magistero che seppellisce l’unica Parola con un diluvio di chiacchiere superflue.
Non si può non notare questo contrasto stridente.
Cristo si è sempre rifiutato di scendere sul terreno del confronto spicciolo, nelle mille controversie con scribi e farisei; ha sempre portato l’interlocutore su un livello più alto (e più impegnativo), dal particolare al generale, dalla forma alla sostanza. Insomma, l’esatto contrario di quello che fanno, a volte, alcuni prelati, che si perdono in questioni di spine da connettere o staccare, preservativi da usare o meno e altre amenità.
Cristo non si è mai lasciato trascinare in discussioni “politiche” (in una Palestina occupata e invasa in cui il problema era cruciale e ineludibile) mentre alcuni membri della Chiesa sembrano non perdere occasione per intrecciare rapporti, dettare condizioni, lanciare anatemi.
Tutte le confessioni religiose hanno una presunzione di verità. Ognuna, anzi, si ritiene unico depositario della verità e, di conseguenza, guarda al resto del mondo come a chi è nell’errore. Con disprezzo, più o meno velato, o compatimento (che è l’altra faccia, quella buona, del disprezzo), con desideri apologetici, di assimilazione o conversione. Sono tornato ieri dalla Grecia e mi ha colpito la vivacità della fede ortodossa, la bellezza delle loro chiese del periodo bizantino, i preti neri con le lunghe barbe, i monasteri appesi alle rocce. Si definiscono ortodossi, cioè quelli che hanno la retta fede, e considerano i cattolici alla stregua di una qualsiasi setta eretica. Mi colpisce il fatto che nel mio inconscio di ex seminarista avevo sempre considerato loro, gli ortodossi, come uno dei tanti movimenti scismatici che avevano deviato dalla giusta strada.
Gli eretici, quelli che hanno smarrito il cammino, nel nostro pensare distratto sono sempre gli altri, evidentemente.
Se leggi una qualsiasi storia delle religioni, non puoi non restare sconcertato dal numero enorme di spaccature, diramazioni, movimenti, sette che caratterizzano la fase senile di ogni confessione religiosa. Fa impressione pensare che ognuno degli appartenenti a ciascuna di queste “schegge” abbia pretesa di essere nel vero, di possederne l’esclusiva (e sovente gli adepti hanno pagato con la vita o con sofferenze enormi questa loro convinzione, pronti, per l’aberrazione della simmetria, a imporre lo stesso prezzo ad altri nel nome della loro, unica e vera “fede”).
Nel 2006 ho letto il vangelo di Marco, a piccole dosi quotidiane. Me ne è rimasta l’impressione netta di un Gesù contadino e paesano, un profeta errante di campagna, guaritore per forza di compassione e annunciatore di una buona notizia per tutti.
Un Messia di villaggio, con la cultura religiosa della scuola di sinagoga (le nostre elementari), profondamente segnato dal suo mestiere di piccolo artigiano, capace di parlare alla gente con la sua stessa lingua. Parole di vita eterna, che si servono però di un dizionario quotidiano e popolare: pane, vino, porte, secchi, vestiti, semi, vigne, rattoppi .
Mi chiedo cosa ne sia rimasto, della forza dirompente di quel Gesù, passato attraverso il filtro di Paolo, uomo colto e cittadino, con un livello di studi che oggi diremmo universitario. Gesù, ebreo di Galilea con una cultura di paese, ostinatamente legato alla dimensione contadina e artigiana dei piccoli villaggi (non risulta abbia mai messo piede nelle due città della regione, Tiberiade e Sephoris) ci arriva tramite Paolo, ebreo ellenizzato, cosmopolita, cittadino, colto. E poi attraverso Ignazio di Antiochia, inventore del termine “cristiani”, che completa il processo di separazione dalla radice ebraica e di ellenizzazione. Poi duemila anni di storia, di scontri e incontri col potere, di lotte, divisioni, contrasti, violenze.
Sovente mi chiedo cosa è rimasto di Lui, di Cristo, in quella che chiamiamo religione cristiana. Lo abbiamo seppellito, il Gesù ebreo di Galilea, sotto strati di cultura, cumuli di filosofia, ammassi di teologia. La lettura attenta dei vangeli ce ne restituisce qualche tratto ed è un’emozione sempre nuova, per me, intravedere, ogni tanto, quella figura affascinante che esce dalle pagine consunte. E’ come scoprire un meraviglioso affresco coperto da uno strato di intonaco.
Pietro, pescatore costretto da un incontro imprevisto a cambiar mestiere, uomo capace di frasi “scolpite” definisce quelle di Cristo le uniche parole di vita eterna. Concordo con lui in pieno, anche se questa non è ancora per me- purtroppo! – una professione di fede, è una semplice constatazione, un dato di fatto. Non ho mai trovato, come ho già detto, nel mio ormai lungo girovagare fra parole scritte e dette, scienza e filosofia, letteratura e religioni nulla di lontanamente paragonabile a quelle semplici frasi che ci regalano Marco, Luca, Matteo e Giovanni.
Sono nato in una famiglia di buoni cattolici, ho fatto cinque anni di seminario.
Mi sono allontanato da quell’immagine di Dio. Se la chiesa fosse un’associazione o un sindacato, potrei dire che ho strappato la tessera. Per mia fortuna, nelle mille divagazioni del viaggio esistenziale, non ho smarrito quei quattro libretti che raccontano in modo diverso e meraviglioso la vicenda umana di Gesù di Nazareth. Sono ancora lì, sulla mia scrivania, sui cui sono passati, senza fermarsi troppo, testi di ogni genere.
Mi piacerebbe, al termine del mio cammino, potermi definire cristiano. Non mi occorrono altri aggettivi a specificare l’appartenenza, vedo già la meta come molto ambiziosa, difficilissima da raggiungere. Perché i seguaci di Cristo, se usiamo la definizione data da Lui stesso, non sono gli appartenenti a questa o quella “chiesa”, ma coloro che realizzano concretamente l’amore reciproco.
E allora ha veramente poco senso perdersi in discussioni di appartenenza.
Quella cristiana è l’unica fede “pratica”, anzi, a rigori, non è neppure una fede, ma una prassi, un modo di vivere. A cui la fede può essere di aiuto, certo, ma in posizione subordinata, come mezzo per raggiungere un fine.
Questo è bello e consolante: non tutti potremo arrivare, nel nostro percorso terreno, spesso segnato da tragedie e disperazione, al porto della fede. Ma tutti possiamo provare a realizzare l’utopia cristiana dell’amore reciproco, a costruire, qui ed ora, una piccola fetta del Regno di Dio.
Così, per alcuni, potrà essere di aiuto aderire ai dogmi della chiesa cattolica, altri percorreranno altre strade, magari molto distanti da ogni confessione religiosa.
Purchè si zappi nella sua vigna, il padrone non sembra molto fiscale, né sugli orari di lavoro, né sulle motivazioni.. E non posso fare a meno di sorridere, a sentirmi parlare di vigne proprio con te, maestro viticultore per eccellenza, vinificatore di memorabili barbere in terra nobile di langa, io che mi arrabatto a tenere alla belle meglio la mia mezza dozzina di ceppi senza pedegrée in quel di Cervasca e devo accontentarmi, a tavola, della mia birra casalinga. Fa il paio con le mie divagazioni nel campo del divino, con commistione di sacro e profano. Confido nel tuo animo pacifista e nella forza della nostra amicizia indelebile per perdonare tutti questi miei sconfinamenti dialettici.
Ma forse, in fondo, non siamo poi così distanti come le frasi sfuggite possano far sembrare. Nel discutere, spesso, si approfondiscono i solchi, le parole ci fanno a volte sembrare più lontani di quanto non siamo in realtà..
Alla donna di Samaria Cristo dice che verrà un tempo in cui non si adorerà più Dio nel tempio di Gerusalemme o su qualche altra montagna, ma in spirito e verità. Allora non avrà più senso parlare del Dio del Vaticano, o del monte Athos e forse neppure della Mecca. Forse allora spariranno tutte le religioni col loro corollario di guerre, divisioni e oppressioni e si realizzerà quella promessa che “è” il vangelo, il lieto annuncio: – il regno di Dio è qui!-.
Credo che nell’attesa, nel viaggio verso questa lontana meta, ogni percorso sia buono e le deviazioni siano comunque parte integrante del cammino. Nessuno dovrebbe avere la presunzione di imporre una rotta o vendere l’illusione di conoscere la strada, pretendere di avere un gps personale puntato verso il cielo che fornisce in ogni istante latitudine e longitudine e ti spiega dove devi girare.
Spero che questa mia chiacchierata arruffata non sia (ancor più dell’articolo sul Granello) caduta nelle sabbie mobili della polemica antiistituzionale. Ti prego di credere che non ne ho la minima intenzione, non nutro malanimo alcuno nei confronti della Chiesa cattolica (a cui sarò per sempre legato da riconoscenza per quello che mi ha comunque dato), ho amici carissimi (e tu sei proprio l’esempio evidente) che amo, stimo e ammiro che son stati capaci, al contrario del sottoscritto, di non gettare il bambino con l’acqua sporca e coniugare appartenenza e vera fede. Mi fa piacere pensare a te, a loro, come a compagni di viaggio a cui aggrapparmi, punti di riferimento nelle incertezze.
Non posso, tuttavia, nascondere certe mie idee, a costo di rischiare un po’ di spunto acetico, malanno che viene al vino per eccessiva agitazione e contatto con l’aria.
Gandhi ci insegna che dobbiamo onorare prima di tutto la verità. Mi colpisce che abbia detto: – un tempo credevo che Dio fosse verità, ora direi piuttosto che la verità è Dio – Io non ho pretesa alcuna di verità, mi limito ad essere rigoroso nell’onestà di dire sempre quel che penso, con la necessaria premessa dell’inconsistenza delle mie argomentazioni.
Sto nuotando a casaccio, col rischio continuo di affondare, mi aggrappo quando posso alle spalle più forti di compagni di strada o alle parole di vita eterna tramandate dai quattro racconti. Dal mio annaspare nell’acqua intravedo passare lontano il bastimento della chiesa-istituzione, con le bandiere spiegate, gli ottoni lucenti e le luci tutte accese. Viaggia coi motori avanti tutta, l’ufficiale di rotta, a prua, non ha mai dubbi sulla direzione da tenere. Non devia dalla sua corsa, non torna indietro a raccogliere naufraghi, non lancia gomene o salvagenti, ha murate alte e lisce. Mi lascia subito indietro, scompare presto dalla mia vista, disturbata da spruzzi d’acqua salata e dalla spossatezza del cercare, ostinatamente, di restare a galla.
Per mia fortuna, incrocio sovente compagni e amici che nuotano come me, o sono aggrappati a zattere o scialuppe. Loro non hanno paura di deviare per raggiungermi, mi danno coraggio, mi fanno compagnia, a volte mi issano a bordo e mi fanno posto senza far caso al pericolo di affondare, di perdersi nell’immensità dell’oceano, di finire le scorte.
Sono questi la mia chiesa.
Perché la chiesa, come la famiglia, come le amicizie, è un qualcosa di personale. Ognuno ha la sua. La mia è una chiesa con i vestiti bagnati e le facce sudate, a volte perfino le mani sporche. E’ una chiesa che sente la fatica di vivere, che ha sempre più domande che risposte, più sorrisi che castighi. Una chiesa che cammina piano, attenta a non perdere nessuno per strada e si ferma ogni tanto ad aspettarmi.
E, nonostante tutto quello che potrà dividerci sul piano del vano parlare, ti sento profondamente parte di quella che per me è la chiesa, carissimo Beppe e – mi dispiace per te…- ti sento compagno di scialuppa (oltre che maestro di vita), sempre pronto a porgermi la mano e tirarmi a bordo.
Ma scialuppa o piroscafo, zattera o relitto, in fondo ha poca importanza.
La meta, come per il Camino di Santiago, è per tutti comune. I percorsi e le motivazioni sono diversi, a volte opposti..
Consola pensare che, nonostante tutto, nonostante le divergenze e le parole a volte polemiche, si stia andando tutti verso una stessa direzione. E allora, nell’attesa di trovarci tutti in un mondo in cui i poveri saranno beati, tutti noi, ciechi e sordi, potremo finalmente vederci chiaro e capire bene, e le mille catene che ci opprimono saranno sciolte, non formalizziamoci troppo sul percorso e sul mezzo di locomozione.
Carissimo Beppe, scusa questo profluvio di pensieri affastellati. Mi rendo conto di aver messo a dura prova la tua pazienza.
Grazie per la tua lettera, per il tuo essere per me “chiesa” e per tutte le cose che in questi vent’anni ho imparato da te.
Un fortissimo abbraccio.
Lele

Risposta a Beppe Marasso dopo la sua replica la mio articolo: Un avverbio di due lettere.
Pubblicata sul Granello di giugno 2007