Autosufficienza 3: frutteti ieri e oggi

Il frutteto specializzato è un’invenzione recente: non se ne trova traccia nei Catasti antichi e anche in quello di fine Ottocento del Regno d’Italia ci imbattiamo più spesso nella qualità di “prato arborato” o di “seminativo arborato”, a indicare come la presenza di alberi da frutta fosse sporadica e secondaria all’utilizzo principale del campo per colture cerealicole o foraggere.
L’albero era un di più, un modo per sfruttare al massimo lo spazio e massimizzare le rese del poco terreno disponibile. Un po’ come in una casa a più piani: in basso si seminava segale, frumento, patate o fagioli e il piano rialzato offriva mele, pere, noci o ciliege. La scarsa meccanizzazione dell’epoca permetteva questa coabitazione, ancora più facile quando il terreno era utilizzato con colture foraggere. Gli alberi da frutta erano allora sempre innestati sul franco o selvatico, che dava piante tardive a entrare in produzione ma longeve e di alto fusto. Si impalcavano i rami a una buona altezza da terra, in modo da consentire sotto il pascolo, lo sfalcio o le coltivazioni erbacee.
Nei campi, le piante interrompevano la monotonia degli eterni lavori manuali della zappa o della falce e offrivano ombra e riparo per animali e uomini. Abbellivano e regalavano varietà e armonia al paesaggio, oltre a fornire frutti, fascine per il forno e legna per il putagé. La presenza sporadica rendeva meno probabile e dannosa la comparsa di parassiti, che in genere convivevano con le piante senza fare troppi danni e richiedere trattamenti appositi. Certo, anche allora qualche griotta aveva il gianìn, qualche mela cadeva per la carpocapsa, qualche noce era bacata, ma era in genere una percentuale ridotta del totale, un prezzo che si pagava volentieri per mangiare comunque frutta sana e nutriente senza dover intervenire con prodotti chimici.
Ancora oggi, gironzolando per colline e bassa montagna, possiamo vedere attorno a case sparse e borgate qualche vecchio melo e pero che resistono all’incuria e all’abbandono. A volte si tratta di varietà antiche quasi scomparse e di buon interesse agronomico e alimentare, che varrebbe la pena recuperare e moltiplicare.
L’avvento e la progressiva diffusione dei frutteti specializzati ha cambiato del tutto le carte in tavola. La meccanizzazione e la necessità di passare fra le file con attrezzi ingombranti ha obbligato a scegliere portainnesti sempre più deboli e nanizzanti, riducendo le distanze fra le piante e aumentandone a dismisura la densità a ettaro. Portainnesti clonali, migliaia di gemelli allineati in infinite file, non più con la variabilità di quelli nati da seme, ma tutti con identico patrimonio genetico, hanno sostituito i loro progenitori imponenti e solitari.
Adesso le piante sono selezionate per avere dimensioni ridotte, che facilitano potatura e raccolta, e per entrare in produzione in tempi brevissimi. Una volta, un melo o, ancora di più, un pero impiegavano quasi dieci anni a entrare nel pieno della produttività, ora a quell’età sono già da sostituire. Nel cortile di casa mia c’è un pero ultracentenario, ancora in buona salute e molto produttivo. Quando sono arrivato vent’anni fa era già “vecchio” e il mio vicino di casa, allora ottantenne, ricordava che era già così quando lui era ancora bambino. Ora il “turno” cioè il tempo di vita utile di un frutteto si può misurare con le dita delle mani. Motivi tecnici (facilità di lavorazione, sicurezza, risparmio di manodopera) si associano a solide ragioni economiche nel consigliare piante dal ciclo breve, che rendono subito, senza generare pesanti interessi passivi sulle ingenti spese di impianto. La volubilità dei consumatori, che a seconda di mode e pubblicità pretendono un anno le mele gialle, l’anno dopo quelle verdi e poi ancora quelle rosse, spinge i produttori a fare scelte varietali di breve periodo, in modo da potersi accodare alla tendenza del momento.
Capisco le ragioni tecniche e commerciali che stanno dietro a queste scelte, ma resto convinto che per il frutteto casalingo sia meglio usare portainnesti robusti e varietà sperimentate, dando a ogni albero spazio, luce e respiro a sufficienza. Solo così si potrà sperare di raccogliere frutti sani senza giocare troppo con la chimica.
Prodursi la propria frutta fresca o secca sta infatti diventando sempre più difficile e le colture arboree da frutto sono forse il settore più problematico per chi vuole raggiungere un certo grado di autosufficienza alimentare. Insetti e parassiti vari si spostano con facilità e mantenere intatti i delicati equilibri ecologici che permettono di coltivare senza troppi interventi chimici non dipende solo dal singolo, ma anche in buona misura dalla zona in cui ci si trova. Collina e bassa montagna, e in genere tutte le aree a bassa densità di colture intensive, sono da questo punto di vista privilegiate, ma ormai è dappertutto più problematico di un tempo riuscire a prodursi la frutta quotidiana senza dover dare trattamenti.

Pubblicato su La Guida del 27-10-022