Piedi, sedere e immaginazione

Come aveva già capito il buon Einstein, tempo e spazio sono relativi e capita che, invecchiando, si impieghi più tempo per fare lo stesso percorso.
Se per andare a un lago o a un rifugio il cartello indicava due ore, quarant’anni fa impiegavo, per raggiungere la meta, meno di un’ora e mezza. Adesso, la mezz’ora risparmiata allora la devo aggiungere, invece di sottrarla. Il conto, però, alla fine torna, e quel che si è perso in velocità si guadagna in lentezza.
Per lo stesso meccanismo, succede che, con l’età, si restringano i percorsi e anche i viaggi. I giovani hanno bisogno di andare lontano, di scoprire orizzonti e continenti diversi, noi vecchietti dobbiamo accontentarci di scoprire quel che c’è di diverso nel nostro consueto orizzonte.
Ma anche questa è un’operazione che può regalare soddisfazione e piacere. Si finisce di capire, con sorpresa, che non è necessario andare lontano per viaggiare davvero, basta andare senza fretta e in profondità. Cosa che si può fare solo muovendosi con leggerezza e senso di gratitudine: in questa nostra terra meravigliosa siamo ospiti e viandanti e dobbiamo passare senza lasciar traccia.
L’importanza di un viaggio non è mai nella meta, nella distanza o nella difficoltà, ma sta tutta nella disposizione interiore e nella capacità di entrare “dentro” il mondo che vogliamo esplorare. In fin dei conti, si viaggia sempre per poi tornare a casa e quindi tanto vale starsene nei paraggi, soprattutto se si ha la fortuna, come noi, di vivere ai piedi di valli di grande bellezza e a tiro di scarpone.
Anche per questo, l’autunno è la stagione migliore per “viaggiare” nella nostra montagna antropizzata. Il viaggio tra antichi sentieri, borgate, piloni votivi, muretti a secco, forni e fontane diventa un pellegrinaggio laico sulle tracce di uomini, donne e animali che ci hanno preceduto sulle nostre montagne e deve essere accompagnato dal piacere di informarsi su architettura, agricoltura e storia di chi un tempo abitava lassù.
Ho avuto la fortuna, per i casi della vita, di poter passare tre anni a fare ricerche di archivio e sul campo nelle valli Stura e Grana. Sulla mia copia del resoconto finale (e non naturalmente su quelle consegnate alla Commissione, che avrebbe potuto fraintendere le intenzioni e non apprezzare lo stile) avevo scritto a matita: “questa tesi è fatta coi piedi e col culo”. Una frase forse non troppo fine, ma con un senso per me importante, che non significava certo una ricerca fatta in fretta e male (anzi, ci avevo messo tutta l’anima e molto impegno e in questo senso “il culo” me l’ero fatto davvero). Volevo solo sottolineare che era un lavoro nato dal muoversi a piedi e dalle innumerevoli ore passate seduto a cercare di decifrare vecchi documenti d’archivio.
Il periodo di ricerca mi ha fatto capire che noi “siamo” la nostra storia e la nostra geografia, possiamo comprendere qualcosa di noi stessi e del nostro oggi, solo se riscopriamo le radici e i posti. E, se la storia si impara stando seduti a leggere antiche carte, la geografia si deve interiorizzare camminando, ripercorrendo col lento movimento dei nostri piedi gli stessi sentieri tracciati da chi in montagna ci viveva e ci ha preceduto. Un territorio si può conoscere solo attraverso la pazienza del percorrerlo con la lentezza del passo e l’attenzione dello sguardo e, almeno in questo, la vecchiaia può aiutare.
Movimento lento e tempo dedicato a studio e riflessione sono entrambi esercizi di pazienza, tenacia e resistenza, la stessa che è stata necessaria ai nostri antenati per venire a patti con la montagna e trarre il necessario per la sopravvivenza da un ambiente difficile e scomodo. Ripercorrere con consapevolezza gli antichi sentieri, sovrapporre le nostre orme a quelle di chi ci ha preceduto, diventa un omaggio e un collegamento con le innumerevoli vite precedenti di cui sono impregnati i luoghi, le pietre, la terra.
Ma piedi e sedere non bastano, ci vuole un terzo ingrediente fondamentale: l’immaginazione. Il termine non è sinonimo di fantasia. L’immaginazione è piuttosto la capacità di immedesimarsi, mettersi nei panni altrui (in questo caso, soche chiodate e camicia di telo ’d caso, la canapa locale). L’immaginazione è il lievito capace di dar forma e consistenza alla storia, di farci vedere scene di vita dietro le pietre cadenti e sotto le lose pericolanti e anche di far rivivere pagine di registri ingiallite dai secoli e prigioniere di archivi polverosi. Immaginare è verbo che si basa sulla conoscenza e sullo studio, altrimenti diventa puro fantasticare: una nostra costruzione mentale senza vere basi.
È evidente che, senza averle provate, anche la migliore immaginazione non basta però a farci rivivere fame, fatiche, paure e neppure il senso di comunità, le semplici soddisfazioni e le gioie del vivere quassù. Ma provarsi a immaginare, dar vita e forma alle cose che vediamo è comunque un obbligo (assieme alla prudenza e al rispetto), per chi viene da pellegrino fra le antiche mura e sui sentieri millenari.
Per dare una qualche concretezza a questa mia chiacchierata, provo a pensare a tre borgate di Castelmagno, meta dei miei ultimi “viaggi” di questo tiepido e limpido autunno. Su Narbona c’è poco da dire che ancora non sia stato detto e scritto: pendenza, architettura, isolamento fanno del piccolo regno degli Arneodo (unico cognome dei centocinquanta e più abitanti di un tempo) un caso molto conosciuto e quasi emblematico di insediamento “estremo”.
In realtà, credo che la quasi sconosciuta Riolavato sia un posto ancor più ostico e meno accogliente. Sul versante all’ubàc, chiusa in un vallone stretto in cui d’inverno non arriva quasi mai il sole, aggrappata al versante ripido solcato da un torrentello (il rio “aval”, in basso, che è diventato, per un’assurda italianizzazione, il “riolavato” delle cartine).
Un luogo dimenticato da tutti e in cui non sale quasi mai nessuno. Eppure è una borgata grossa, con case un tempo imponenti, l’immancabile chiesetta, le volte a botte delle stalle che resistono anche dove i travi di colmi e costane hanno ceduto da anni. Campi e prati sono a monte, lontani, ormai quasi irraggiungibili e cancellati dalla “buschina”.
La borgata nasce a fine 1600 ed era allora abitata da una sola famiglia, di cognome Galliano. Nell’archivio di Castelmagno è ancora conservato l’avviso dell’asta pubblica del 1687 del “tetto continente casa, fogagna, trabio fenera et altri caseggi coperti parte a lose e parte a paglia” che era messo in vendita dal comune al miglior offerente col solito metodo “dell’estinzione della candela”. Un’asta combattuta che sancisce la nascita della borgata e che ci fa capire come la forte ripresa demografica successiva alla grave crisi della peste del 1630 obbligasse a colonizzare e abitare territori via via meno favorevoli e più disagiati. Anche quel vallone sperduto e un po’ infelice, quasi privo di terreni coltivabili e poco rallegrato negli interminabili inverni dal calore consolante del sole, in cui il lavoro degli abitanti è sempre stato legato allo sfruttamento del bosco e alla fabbricazione del carbone di legna.
Molti insediamenti delle nostre valli sono frutto non della libera scelta delle posizioni migliori, ma della necessità di sfruttare anche le risorse meno appetibili e più disagiate. Una scelta obbligata, quindi, frutto della sovrappopolazione, di un territorio difficile e di un’economia di autosufficienza. A seconda dei punti di vista, una “scelta” dettata dalla disperazione o da una speranza invincibile e testarda.
Pochi decenni dopo, le famiglie erano già otto, con nove vacche e trenta pecore. Ancora nel 1944 a Riolavato vivevano nove famiglie (di cui sette Galliano) per complessive 35 persone con 18 vacche.
Nel bagaglio di difficoltà degli abitanti della borgata, oltre alla posizione poco soleggiata, la pendenza del terreno e la mancanza di campi vicini alle case, bisognava aggiungere la lontananza dai centri vitali del comune di Castelmagno: Campomolino e Colletto. Riolavato, in effetti, era più vicino e più comodo, per molti aspetti, a Pradleves e alle sue frazioni di Pentenera e Scaletta. Per arrivare alla sede comunale bisognava scendere per il ripido sentiero fino alla strada di fondovalle e risalirla per chilometri. Peggio ancora per parrocchia e scuola, che erano al Colletto, raggiungibile dopo un’ulteriore dura salita.
Agli inizi degli anni cinquanta a Riolavato c’era ancora un bambino che per “ottemperare all’obbligo scolastico” doveva raggiungere la lontanissima scuola del Colletto, con un percorso lungo, faticoso e d’inverno anche pericoloso. Non è facile, per noi oggi immaginare un bambino costretto a fare tutta quella fatica per andare a scuola, e non è troppo difficile capire come mai la gente se ne sia andata da una borgata così disagiata.
Se la gita a Riolavato vi ha infreddoliti e anche un po’ rattristati per il panorama chiuso e un po’ cupo del vallone, potete riscaldarvi e rifarvi la vista salendo a Cauri, sul versante opposto della valle. La via d’accesso più breve parte subito dopo il paravalanghe e la ripidità della salita consente un efficace riscaldamento. E, dopo il bosco, la vista spazia su cime e borgate.
Perché immaginare è importante, ma in fondo andiamo in montagna soprattutto per vedere e godere di spazi e colori che ci mancano nella quotidianità casalinga. Il sole buono di una giornata autunnale ripaga di ogni sforzo; e pazienza se per arrivare a Cauri avremo impiegato quasi mezz’ora in più del tempo indicato dal cartello.
Noi vecchietti non abbiamo certo bisogno di Einstein per capire che il tempo è relativo e quello impiegato camminando è talmente piacevole che possiamo permetterci di dilatarlo.

Pubblicato su La Ciapera del dicembre 2021