In ricordo di Ezio Bosso 2. Prove d’orchestra
Chi ha i capelli grigi ricorderà l’impressione che fece nel 1979 il film Prova d’orchestra, forse il più strano e il meno felliniano dei film di Fellini. Un amaro e disperato apologo sul mondo in cui viviamo, secondo Strehler; l’immagine inquietante dell’Italia di quei tempi cupi o una metafora della società in crisi, secondo altri commentatori.
Di certo, nel film del grande regista, orchestra e orchestrali non fanno una gran figura e il direttore, biondo e con un marcato accento tedesco, sembra l’incarnazione di un dittatore incapace e frustrato, più che un maestro in grado di motivare e guidare i suoi musicisti.
Pensavo al film di Fellini guardando i video delle prove d’orchestra dirette da Ezio Bosso. Prove aperte, per volere del maestro, che credeva nel coinvolgimento e nell’importanza del pubblico, considerato non un insieme di passivi spettatori, ma un elemento attivo e un protagonista a pieno titolo dell’evento musicale. Secondo Bosso, gli ascoltatori sono una componente fondamentale dell’orchestra, “suonatori senza strumenti”, che contribuiscono col silenzio, con l’attenzione e con la tensione a creare la musica.
E proprio il silenzio, questa termine così poco di moda, è per il direttore “la prima forma di musica”. “La musica ha bisogno di silenzio per esistere; quando stiamo in silenzio sentiamo la prima musica che è quella della natura e il nostro silenzio crea la musica”.
Credo che capiti lo stesso anche con le parole, e quelle che leggiamo o sentiamo possono metter radici in noi solo se trovano terreno sgombro da troppi rumori e distrazioni.
Per Bosso è fondamentale anche il silenzio “interno” alla musica, che è fatta di note e di pause, e questi brevi attimi di sospensione sono altrettanto importanti dei suoni, perché creano l’attesa e la tensione necessaria per dar spazio e accoglienza alle note che verranno: “Noi pensiamo sempre al suono quando c’è il suono, a me piace pensare al suono quando deve arrivare…Non dobbiamo aver paura del silenzio”.
In perfetta antitesi col film di Fellini, per Bosso l’orchestra è proprio l’immagine della società ideale “perché basata sul rispetto: ogni elemento è fondamentale, il migliorarsi di ognuno diventa il migliorarsi di tutti e diventa un’unica cosa che si chiama mutualità”. Dirigere un’orchestra è un atto di responsabilità: “la responsabilità di chi è davanti e deve lavorare il doppio, non usare il suo potere. Siamo lì per illuminare” e per farlo è necessario togliere luce da se stessi e concentrare tutta l’attenzione sulla musica. La stessa parola “competizione ha la radice latina cum, insieme, non è l’eliminazione dell’altro o il primeggiare”, e “il virtuosismo vero è quello di seguire l’altro, non quello di fare più note o andare più forte. Conoscere i tuoi compagni di viaggio, suonare con loro e anche fidarti di loro”.
Nonostante i suoi problemi di salute, Ezio Bosso aveva una direzione molto “fisica” e partecipata, fatta di movimenti decisi e precisi, ma anche e soprattutto di sguardi. Gli obiettivi delle telecamere e l’attuale tecnologia digitale ci regalano particolari che un tempo sarebbero stati impossibili da catturare e ci permettono di vedere gli incroci di sguardi fra direttore e il singolo suonatore. Una corrispondenza biunivoca e un rapporto personale, da uno a uno, in cui ogni musicista riceveva tutta l’attenzione come fosse l’unico e dava tutto se stesso, come se la riuscita del concerto dipendesse solo da lui.
Lavoro serio e appassionato, amicizia, rispetto dei ruoli, competenza sono alla base della magia che permette a un’orchestra di un’ottantina di persone, diverse per età, nazionalità, lingua, temperamento, di diventare un tutt’uno e suonare davvero “insieme” E allora la bacchetta del direttore diventa un po’ come quella del mago, capace di creare il miracolo ogni volta diverso del “concerto” e chi dirige si merita davvero l’appellativo di “maestro”. Una qualifica che si guadagna sul campo e che contiene il rispetto, la fiducia, la stima. È significativo che si adoperi la parola “maestro”, che ha forti assonanze evangeliche, per gli insegnanti delle elementari, il tempo in cui il bambino è ancora capace di affidarsi completamente a chi lo guida con amore e saggezza, e poi il termine passi ad indicare solo chi si è guadagnato una stima incondizionata per doti artistiche e umane. Maestro è anche un sostantivo transitivo, nel senso che, come il testimone in una staffetta, si riceve sempre da qualcuno e si passa a qualcun altro. Ezio Bosso si illuminava di un sorriso più grande del solito quando ricordava Abbado, da cui aveva ricevuto l’imprinting e imparato l’arte e distingueva Claudio, l’amico, dal “maestro Abbado”. Due significati che non si contraddicevano affatto, anzi, erano complementari, ma che preferiva tenere distinti. Il maestro è colui “che non ha mai finito di imparare” e che rispetta la personalità di tutti senza prevaricare e senza mai doversi imporre: “I grandi maestri non sono coloro che ti spiegano come fare, ma che ti indicano la “tua” strada”.
Maestro è termine impegnativo che riassume la passione e il lavoro di tutta una vita e si costruisce solo passando per una gavetta infinita. Ezio Bosso, che aveva imparato a quattro anni a leggere le note, dopo un inizio con il fagotto si era diplomato in contrabbasso, per poi approdare al pianoforte e allo studio complesso della composizione e direzione. In campo musicale, chi arriva a meritarsi il titolo di maestro è sempre passato attraverso lunghi anni di pratica strumentale e di studio e ha percorso senza scorciatoie tutte le tappe della preparazione teorica e pratica. Un curriculum possibile solo grazie a doti naturali sorrette da un’immensa passione e da grande volontà.
Sarebbe bello che anche chi aspira a posti di comando e di responsabilità in campo economico, politico e amministrativo avesse alle spalle un percorso altrettanto valido e impegnativo. Solo chi è passato per fatiche, speranze, successi e delusioni può aver accumulato esperienza e saggezza sufficiente per dirigere gli altri con rispetto e autorevolezza.
Se l’orchestra è la metafora della società, sta a noi scegliere se rassegnarci al modello felliniano, con un direttore incapace e aggressivo e musicisti svogliati, demotivati e presuntuosi in competizione fra loro, oppure cercare di raggiungere l’ideale indicato da Abbado e da Bosso, basato su passione, competenza, umiltà, collaborazione, stima reciproca. Perché la scelta di un buon direttore è fondamentale anche nella vita quotidiana e nella società civile e dipende in buona misura anche da noi, semplici orchestrali.
Pubblicato su La Guida del 28-5-020