Due nonni, una storia
Nonni indelebili
I nonni per me sono stati fondamentali.
Il loro peso nell’educazione e nella formazione della personalità è stato importante quanto quello dei genitori.
Con padre e madre il rapporto è più diretto, immediato, continuo, fino a diventare, nell’adolescenza, conflittuale. La prima giovinezza è una cruna dell’ago da cui si passa per ritrovarsi nuovi. Una sorta di rinascita, in cui, chi attraversa indenne la prova, assume una forma più definita e trova armonia e stabilità senza perdere troppo la voglia di cambiare. Noi, come gli insetti, cresciamo attraverso le mute, non in modo lineare ma con salti improvvisi, dobbiamo toglierci la vecchia pelle a ogni passaggio senza che quella nuova, che preme sotto, abbia ancora consistenza e stabilità.
Il passare degli anni e il tuo crescere a balzi successivi trasforma la relazione con un papà e una mamma che, nel frattempo, proseguono il loro cammino di vita. La tua infanzia si intreccia con la loro maturità, la tua maturità con la loro vecchiaia, in un continuo cambiamento di prospettive che può arrivare al ribaltamento dei ruoli.
Quello coi genitori è il rapporto fondante, ma è anche più scontato, ha il peso della quotidianità e della responsabilità.
Genitori si diventa in un epoca della vita, i trent’anni, in cui spesso si è distratti e voraci, presi da impegni di crescita lavorativa, ansia di vivere, preoccupazioni economiche, case da comprare e ristrutturare, debiti da pagare. Si è troppo impegnati a vivere per fermarsi davvero a capire e anche solo a godere a fondo del miracolo di un figlio.
I nonni hanno un altro rapporto col tempo, un’altra scala di priorità, la pazienza e la saggezza che ci regalano i tanti giorni trascorsi per farci dimenticare quello che, senza che ce ne accorgessimo, ci hanno rubato.
I giorni che passano, infatti, sono ladri distratti, che ci portano via molto, ma dimenticano sempre qualcosa che ci arricchisce.
Per questo sono convinto che quello che ognuno di noi è non sia solo un regalo dell’amore dei genitori: ci arriva da più indietro, in modo meno diretto, da una lunga serie di antenati.
Nel mio caso è impossibile rintracciarli, non siamo gente da alberi genealogici. Soprattutto da parte di padre, le generazioni di contadini con poca terra e tanta fame si perdono nel buio di archivi parrocchiali e atti di anagrafe. Inutile risalire la corrente, nomi e date ci direbbero comunque poco. Dei bisnonni e trisnonni, come per la rosa di Eco, nuda nomina tenemus, rimangono solo più i nomi.
Nella memoria restano, indelebili, i nonni.
Nonno Pietro
A quei tempi, durante la stagione, le macine giravano giorno e notte, mosse dall’eterno rinnovarsi del peso dell’acqua sulla ruota. Pulegge di legno e spesse cinghie di cuoio trasmettevano il moto alle pietre: dodici quintali di granito si strusciavano fra loro per ridurre in farina il grano, l’orzo, la segale, la meliga.
Lui dormiva rannicchiato sull’assito di legno, l’orecchio appoggiato ai listoni di castagno del pavimento a raccogliere quel rosario ininterrotto di sfregamenti e cigolii.
Sonni brevi, interrotti. Il tempo che la tramoggia riempita fino all’orlo si svuotasse, gigantesca clessidra che piangeva il suo filo continuo di grani, e già bisognava alzarsi e portare un altro sacco. Neanche abbastanza per chiudere gli occhi, figuriamoci riuscire a sognare.
Anni e anni con quel rumore nelle orecchie, amplificato dalla cassa armonica dell’impiantito di legno. Per questo, da vecchio era diventato un po’ sordo. Faticava a capire i bisbigli, si faceva ripetere le frasi sussurrate.
Altri guai non ne aveva. Mai visto un dottore, la schiena dritta a piombo e le gambe salde, collaudate da innumerevoli sacchi di grano portati a spalle. Il sacco da 5 emine, circa 90 chili, era allora l’unità di misura: non usava scendere nei sottomultipli. Le attuali normative erano ancora lontane, a regalarci sacchetti leggeri da venticinque chili: i cinquanta sono già “da movimentare in due operatori”.
Nonno Pietro è quello che è riuscito a traghettare la mia famiglia dalla miseria senza sbocchi e dalla schiavitù del salario alla dignità del lavoro in proprio. Fino a intravedere, ormai da anziano, qualche briciola di agiatezza. La casa di famiglia di Borgo è uscita dai suoi sacchi di farina: ogni pietra è stata pagata con la forza della sua schiena.
E’ il nostro patriarca: prima di lui non ho notizia di antenati. La nostra è stirpe piantata nella terra: gli avi sono contadini con troppi figli e nessuna proprietà. Si è perso anche il ricordo dei nomi.
Nato a Torre Mondovì, sul finire dell’ottocento: 1881, per essere precisi.
Ho sentito che Torre in aramaico si dice Magdal; Maria di Magdala era quindi Maria di Torre, esattamente come una mia cugina. Con la Maddalena, quindi, magara suma ’ncù fina parent, come si diceva in famiglia ai tempi in cui le parentele erano importanti e complicate, e si riusciva a risalire per generazioni seguendo i fili di esili tracce di sangue mescolato.
Mi farebbe piacere, è una donna davvero simpatica. Tutte le figure femminili nella Scrittura hanno una marcia in più dei colleghi maschi, come capita anche nella vita quotidiana, ma Maria di Magdala è davvero straordinaria. Che tristezza che la terribile agiografia passata ne abbia fatto il prototipo della peccatrice pentita, proprio lei così orgogliosa di portare a spasso il suo amore esagerato e la sua presenza ingombrante. Pentirsi del sentimento più vero e più bello! Viene da pensare che noi cristiani non abbiamo ancora capito molto dell’uomo chiamato Cristo e delle persone che gli stavano intorno.
Pietro di Magdala suonerebbe bene. Lui, però, era solo Pietro Valentino Viola, di Torre Mondovì. I nomi dei paesi sono gli stessi in tutto il mondo e in tutta la storia: dappertutto c’era una torre, un olmo, un frassino, una qualsiasi cosa per distinguersi dai vicini e inventarsi un’identità.
A lavorare sotto padrone, a quei tempi, si guadagnava appena di che mangiare. Per avanzare qualcosa e provare a uscire dalla trappola della miseria c’era una sola soluzione: bisognava lavorare per due. Giorno e notte, dormendo a spicchi accanto alla macina nel tempo concesso dalla tramoggia riempita all’orlo.
Anni di sonni a rate, di sacchi sulla schiena e di rumore nelle orecchie. Per resistere ed uscirne bisognava essere duri come una quercia cresciuta nei prati magri dell’adréch.
Per questo, di lui ricordo occhi chiari e sereni, ma che potevano avere in fondo un riflesso durissimo, di vecchio acciaio.
A furia di sacchi, il garzone era cresciuto e si era messo da parte qualcosa. Abbastanza per scappare dal padrone, affittare un piccolo mulino e cercarsi una moglie. Era l’ora: il tempo della gioventù era quasi passato, macinato da quella stessa ruota che girava giorno e notte a scandire le sue lunghe giornate.
Alla fiera della Madonna, a Vicoforte, si andava col carro tirato dai buoi e si restava tre giorni. Quell’anno era tornato con una promessa d’amore. Aveva incontrato una ragazza alta, giovane, con gli occhi azzurri.
Sarebbe stata molto bella, se non fosse stata troppo magra per la sua altezza fuori dal comune. Allora non era la dieta o la palestra, era la fame, quella vera. E magro non era bello, era solo povero; più povero degli altri, che già non erano certo ricchi.
Mio nonno da giovane doveva essere un bel tipo. Ma, a convincere quella ragazza carina a lasciare per lui la sua Mombasiglio, una buona mano l’avrà certo data il suo profumo di grano, la promessa di una pagnotta sul tavolo. Teresa sognava il pane bianco: sposando un aspirante mugnaio la farina non sarebbe di certo mancata.
La nonna era ormai vecchia quando mi ha confessato un peccato di gioventù. Aveva passato la giornata a guidare i buoi all’aratro. Lei, bambina, a tenere la corda e camminare davanti, il padre a impugnare le stegole: un eterno avanti e indietro, un cammino che non portava da nessuna parte e non finiva mai. La pancia era vuota, il latte del mattino era solo un ricordo. Avanzava al ritmo lento dei bovini trascinando i piedi nudi sulle stoppie e non ci vedeva più dalla fame. Avanti e indietro, andata e ritorno, cambiava solo la direzione dell’ombra. Finalmente, al tramonto, il campo era tutto un ricamo di zolle rivoltate. Si erano avviati verso casa.
Quel giorno le donne avevano fatto il pane. L’ultima infornata era già stata tolta e messa a raffreddare nello stanzino adiacente al forno. Il profumo che usciva dalla porta socchiusa era una tentazione molto più grande della mela di Eva, ti saliva dal naso e arrivava in gola, ti faceva venire l’acquolina in bocca, ti stringeva lo stomaco vuoto.
Una pagnotta era finita sotto il vestito. Poi, la fuga in fienile assieme a un fratellino con cui dividere quel tesoro rubato. Nascosti da un mucchio di fieno a sbranare a morsi quel pane caldo, divisi fra la paura di essere scoperti, il piacere del cibo ingozzato, i sensi di colpa per il furto inaudito. Settimo: non rubare.
Doveva avere il cuore puro, nonna Teresa, se a quasi ottant’anni ricordava ancora quel suo peccato originale, se lo raccontava al nipote un po’ “barbèt” come per sgravarsi di quella macchia antica con un’ennesima confessione.
Non dubito che colui che moltiplicava i pani per compassione della folla affamata le abbia regalato un sorriso e un abbraccio, nell’incontro finale: una simile colpa non merita neppure di scomodare il braccio divino in un gesto di assoluzione.
Io, invece, fatico a capire chi è riuscito a colorare di peccato quel gesto infantile dettato dalla fame, chi ha costruito tutti quei sensi di colpa in un’anima pura di bimba. Tanto forti da gettare, per quel pane nascosto e mangiato, un’ombra lunga, capace di attraversare tutta una vita. Ma erano tempi molto diversi dai nostri, nel bene e nel male.
Dal matrimonio era nato Giovanni Battista, mio padre.
Non subito, perché l’idiozia della guerra mondiale aveva preteso il suo tributo alla giovane famiglia e spedito lo sposo in trincea. Di quegli anni era rimasto nel nonno solo un’avversione per guerre ed eserciti, talmente forte da entrare nel patrimonio genetico e trasmettersi coi cromosomi alla discendenza. Non ne parlava volentieri, non aveva memorie di battaglie, non l’ho mai sentito narrare episodi. Unico ricordo di quel periodo assurdo e devastante un braccialetto di sottile metallo che un suo anonimo compagno di trincea aveva intagliato recuperando uno scarto di lamiera. Un lascito per me più prezioso di qualsiasi gioiello, con incisa una data, 1918, e una colomba stilizzata, a testimoniare che le potenze degli inferi e la violenza della guerra “non prevalebunt” sulla forza tranquilla dell’amicizia.
Giovanni Battista era nato nel ’21, passata la bufera, a Trinità di Fossano. Una delle tappe del mugnaio errante, affittuario con l’ambizione di arrivare un giorno a non dovere chiamare più nessuno padrone.
L’approdo era stato a Borgo, in un mulino finalmente suo.
La vita sembrava andare finalmente per il verso giusto. I sacchi erano sempre pesanti, ma le ruote giravano per lui e per la sua famiglia, non più per ingrassare gli altri.
Teresa gestiva la casa con amore e decisione; Battista cresceva, era un frugoletto allegro, vivace, alla scoperta di quel suo mondo fatato fatto di pulegge e macine, di cinghie e grosse ruote dentate. Un universo in continuo movimento.
Non so come sia accaduta la tragedia. Forse una caduta, un attimo di disattenzione.
So che la morsa di due ingranaggi si è chiusa sul piccolo braccio. Il destro, quello buono, quello della forza.
Non mi hanno mai raccontato particolari. Come per la guerra, era cosa troppo brutta per rinnovarne la memoria. Il dolore, il male assurdo non sopporta di essere narrato, l’unica salvezza è andare avanti facendo finta di nulla.
Il sogno di tutta una vita, quello costruito in tutti quegli anni di notti insonni e di sacchi a spalle, distrutto in un attimo. Perduto con il braccio dell’unico figlio.
Il mulino ceduto, nonno non sopportava più di vedere quelle ruote girare, il nuovo lavoro di granatìn. Anni di cui non so niente. Di certo, anni difficili.
Facile dire, col senno di poi, che non tutto il male viene per nuocere, che c’è sempre una possibilità e un’opportunità dietro ogni nostra disgrazia. In effetti, il braccio perduto farà del mugnaio un professore, lo obbligherà a studiare per trovare un lavoro, liberandolo dai sacchi di grano. Ma, soprattutto, lo salverà dalla guerra. La classe del 21 è rimasta in buona parte nelle steppe della Russia.
Nonno Pietro era un bel vecchio. Sano, forte, sereno. Con una memoria strepitosa. Se gli chiedevi un particolare di qualcosa successo all’inizio del secolo dovevi sorbirti la solita premessa, che era passato tanto tempo e che la sua testa non era più quella di una volta. Poi iniziava a snocciolare nomi, cognomi, date, fatti e citava le frasi dette da tutti fra virgolette.
La tipica memoria dei vecchi di buona memoria, che non ricordano le cose fatte ieri, ma sanno raccontarti il colore della giacca della loro prima comunione e il numero esatto dei bottoni sul colletto.
Quando leggo il vangelo di Giovanni mi pare di ritrovare questo tipo di capacità di ricordare. Il vecchio evangelista scrive al termine di una vita lunga e intensa. La sua penna ha già partorito quel libro incredibile che è l’Apocalisse, di difficilissima lettura. Nello scrivere il “suo” vangelo si dimentica di parlare del Padre Nostro, non ricorda il discorso delle beatitudini, ci descrive l’ultima cena in modo del tutto diverso dagli altri, senza far cenno all’eucarestia. In compenso ci dice che a Cana le giare erano sei, da circa cento litri l’una. Ci dice l’ora precisa del suo primo incontro con Cristo: “erano circa le quattro pomeridiane” (quel “circa” sembra chiedere scusa per non poterci dare l’informazione esatta al minuto: allora non usavano gli orologi al quarzo). Ci informa che la piscina di Siloe aveva cinque portici, e tutti pensano: rieccolo coi numeri usati in chiave simbolica, e vanno a studiare le interpretazioni più strane; finché gli scavi archeologici non trovano proprio una piscina fatta esattamente così. Per non parlare dei “centocinquantatre grossi pesci” presi nella rete su indicazione del risorto nella più strana delle sue apparizioni.
Una memoria da vecchio, come quella del nonno. La memoria di chi vede le cose da una prospettiva ormai lontana. Per questo, una testimonianza di sicura affidabilità.
Il nonno aveva un debole per me. Non per favoritismo o affinità di carattere: perché ero il primo nipote, colui che l’aveva reso nonno, ormai in età avanzata.
Di ritorno dall’ospedale, in cui mia mamma aveva partorito, nonno Pietro mi aveva aspettato in strada nell’aria fresca di marzo, davanti a quello che era stato per decenni il suo negozio, perché doveva essere lui a portarmi dentro. Il più vecchio dava il benvenuto al più giovane, lo accoglieva nelle sue braccia e lo introduceva nella famiglia. Passava le sue ore di anziano vicino alla mia culla di neonato a parlarmi in continuazione, come se potessi già capire qualcosa, come se fossi un adulto. Naturalmente non ho ricordi di tutte quelle parole sussurrate nel suo piemontese abituale, ma non sarebbe corretto dire che non ne ho memoria; anzi, forse è proprio quello lo zoccolo duro della memoria, quello che né gli anni, né le occupazioni della vita e neppure il declino cognitivo della vecchiaia potrà mai estirpare del tutto.
Di sicuro, quel travaso di affetto e di informazioni non è passato comunque invano nella mia testolina di bimbo, se poi mi sono ritrovato, dopo decenni, ad amare le stesse cose e ad avere, anche, un riflesso, purtroppo molto annacquato, del suo carattere.
Aveva un’incredibile abilità manuale, era capace di aggiustare e fabbricare qualsiasi cosa con un’attrezzatura minima. Faceva nascere mobili, sedie, riparava ombrelli, risuolava scarpe, affilava lame. Affrontava e risolveva con calma e precisione qualsiasi problema tecnico della casa, con la sapienza del vecchio contadino capace a far tutto per impossibilità di delegare ad altri il lavoro. Molti anni dopo la sua morte avevo trovato in solaio una scatola di vecchie lampadine bruciate e avevo chiesto a mia nonna come mai non le avesse buttate via. “Magara prima o dop nonu i rangiava” era stata la sua risposta, a conferma della fiducia illimitata nelle abilità pratiche del consorte e di tempi in cui il minimo spreco era considerato peccato mortale.
Teneva in gran conto la cultura, ricordo ancora che mi ripeteva sempre che avrei dovuto studiare e combinare qualcosa nella vita. Diceva proprio così: combinare qualcosa, non diventare qualcuno, che è tutta un’altra cosa. Fare qualcosa di utile nella propria esistenza, per sé e per gli altri.
Mi ha dato anche il più grande dolore della mia fanciullezza.
Avevo dodici anni, facevo le medie in seminario. Un giorno, il rettore mi manda a chiamare: – Mettiti la giacca, devi andare a casa, tuo nonno non sta tanto bene…-
Allora non sapevo ancora che anche i preti possono a volte raccontar bugie. Ho creduto alla sua prima malattia, mi sono immaginato di trovarlo, per la prima volta, sdraiato nel letto con la febbre o il mal di gola. Ero quasi contento per l’insperata vacanza, di quei tempi si usciva dal collegio solo in rare occasioni. Avrei scherzato sulla sua prima influenza, mi sarei seduto sulla sponda del letto, gli avrei tenuto compagnia, come faceva con me bambino. Di certo sarebbe guarito.
Naturalmente era già morto. Il primo schiaffo che la vita mi ha dato in pieno viso. Quello che ha bruciato di più. Altri ne sono venuti, anche più forti; ma già avevo imparato a levare le mani e pararmi la faccia.
Nonno Pietro è morto il 7 novembre 1967. Aveva ottantasette anni, per quei tempi un’età molto avanzata, era uno dei più vecchi del paese. Ed era davvero un bel vecchio, occhi chiari, schiena dritta, salute di ferro. Qualche giorno prima aveva finito di tagliare la legna per l’inverno.
Eppure, quando al mattino mia madre era andato a salutarlo, le aveva detto, in piena tranquillità, che quel giorno sarebbe morto. Nel racconto della mamma (o più facilmente, nella mia memoria di bambino) c’è qualche incertezza su numeri e nomi, ma la spiegazione era chiarissima: erano passati tot anni esatti dalla morte di sua madre (o di qualche altro parente, magari proprio suo nonno…) e quel giorno toccava a lui. Punto.
Mia madre non si era affatto preoccupata, era uscita dalla camera del nonno sorridendo e scuotendo la testa. I vecchi, a volte, sanno essere buffi, con le loro fissazioni.
Ed era rientrata la sera, sempre sorridendo, per augurare la buona notte e prenderlo bonariamente in giro: hai visto che non sei morto…
Ma mio nonno era morto per davvero.
Col senno di poi, mia mamma avrebbe dovuto prevederlo: nonno Pietro non era il tipo da scherzare sulle cose serie (e cosa c’è di più serio della propria morte?) e per lui la parola era sacra, non avrebbe mai fatto un’affermazione senza tenervi fede.
Nessuno conosce né il giorno né l’ora, dicono le Scritture.
Regola confermata dalle eccezioni, come tutte.
O, almeno, non contraddetta dalle intuizioni.
Nonno Cristoforo
Nonno Cristoforo, invece, non l’ho mai conosciuto.
La sua storia si è fermata nel campo di concentramento di Mauthausen, ventun anni prima che iniziasse la mia, il 14 aprile del ’44.
Di lui mi rimane una foto sul comò, in quella che era la camera da letto di mia madre. Capelli ricci, come suo figlio Aldo e com’è toccato di striscio anche a me; il carattere si è diluito col passare delle generazioni, lasciando un ricciolo più aperto, imbastardito.
Faceva il tipografo, mestiere non troppo diverso da quello di nonno Pietro. Uno macinava grano, l’altro parole. Pietro vendeva farina in sacchi di iuta, Cristoforo idee scritte su carta. Identico il rumore di macchine, pulegge che girano, cuscinetti da ingrassare, vibrazioni pesanti trasmesse al pavimento. Simile, credo, quella che oggi si chiamerebbe “capacità imprenditoriale”, carattere mendeliano presente in entrambi i progenitori, ma, com’è evidente, doppiamente recessivo, se non ha lasciato traccia alcuna in famiglia.
Anche nonno Cristoforo aveva fatto “fortuna”, credo ben di più di Pietro. E’ più facile avanzar soldi con risme di carta e caratteri mobili che con semi e granaglie. Forse anche allora, come oggi, per qualche bizzarria dell’animo umano, la disponibilità a spendere della gente era inversamente proporzionale alla necessità di un bene. O, forse, si potrebbe discutere di cosa sia veramente indispensabile e quale sia l’effettiva scala di priorità che guida le nostre scelte. La tipografia era una piccola industria ben avviata, poi c’erano i negozi di carta e cancelleria, a Dronero e a Saluzzo, una bella casa, quasi nobiliare, con saloni e ampie scale in pietra, cascine e terreni nella fertile piana di Lagnasco.
Una giovane moglie, nonna Bianca, di una bellezza più raffinata di quella ruspante e spilungona di nonna Teresa. Anche Cristoforo, d’altra parte era un bell’uomo, a giudicare dalla foto sul comò. Alto, slanciato. Si vede che la schiena non aveva dovuto schiacciarsi troppo, farsi piccola per resistere al peso dei sacchi, come per Pietro, venuto su più tozzo e robusto.
Una vita promettente, un’azienda ben avviata, una moglie adorabile che gli aveva regalato una bella bambina, mia madre, nello splendore dell’adolescenza e un frugoletto di pochi mesi, Aldo, coi suoi stessi riccioli neri.
Tutto questo è stato cancellato in un giorno, come una riga a matita da un colpo di gomma. Spazzato via, come un castello di sabbia sulla spiaggia da un’onda cattiva.
Stampava fogli che incitavano a resistere alla follia del fascismo, ad opporsi all’aggressione nazista. Fra un manifesto e un pacco di biglietti da visita, le grandi macchine da stampa venivano a volte usate, di nascosto, per far nascere piccoli fogli scritti fini su cui correvano pensieri di libertà.
Nonno Cristoforo sapeva che la guerra si vince con la diffusione di idee, prima che coi fucili e che il nemico si può combattere anche con l’inchiostro e non solo con le armi. Il piombo è sovente più efficace a farne caratteri a stampa, piuttosto che proiettili.
Sapeva anche che professare le proprie idee, di quei tempi, era pericoloso, molto pericoloso. Erano giorni infami, la follia della guerra era al culmine, la repressione di ogni tentativo di opporsi era crudele e immediata. La lotta aveva perso ogni traccia di umanità e si avvitava in una spirale di ferocia senza fine.
E l’attività di propaganda, così come il libero pensiero, ha scarsi margini di segreto: per sua stessa natura deve correre di bocca in bocca, girare per le piazze, mescolarsi alla gente. E’ illusione tenerla nascosta. Cristoforo non poteva non saperlo. Era persona intelligente, doveva capire che non sarebbe durata, che non poteva farla franca. Che il giorno sarebbe venuto.
Ha scelto di continuare a pensare e agire in libertà e secondo coscienza.
D’accordo con l’amico e socio Lantermino (lo “zio” Baba di mia madre bambina, anche lui morto a Mauthausen), i proventi dell’azienda erano a volte trasformati in grano da mandare alle bande partigiane. Un aiuto concreto e un altro incastro nelle storie dei due nonni: il grano e la carta, le macine e i torchi da stampa.
Sarà proprio questo grano donato a servire da pretesto per la condanna e la deportazione.
La tipografia bruciata, la casa distrutta, la prigionia, il viaggio nei carri bestiame, l’orrore del campo di Mauthausen. La morte arrivata in tempi brevi, quasi una fortuna, un gesto pietoso della sorte per abbreviare l’agonia in quella porzione d’inferno in terra.
Qualcuno ha detto: – Come sarà possibile credere a Dio dopo Auschwitz? – Ha sbagliato bersaglio. Ha detto una fesseria. Non serve scaricare la responsabilità su Dio, quando i colpevoli hanno un nome e un cognome.
Non so immaginare come deve aver vissuto quei mesi nonna Bianca, con mia madre dodicenne. Non so come si possa riprendere a vivere nella casa vuota con i muri anneriti dal fumo. Non so come saranno stati i giorni del nonno nel campo dell’orrore, cosa avrà provato in quei pochi mesi prima di passare per il camino del forno crematorio. Non riesco a pensare a questo genere di cose: l’immaginazione è bestia da tenere a freno, con briglie corte, se non si vuole esser travolti.
La tipografia era distrutta: il calore aveva sciolto il piombo dei caratteri; solo la carta pressata nelle risme sembrava intatta, ma a toccarla si dissolveva, spariva in fuliggine. La terra venduta, chiusi i negozi, mia mamma in collegio, Aldo da tirar su, un figlio a cui attaccarsi per non andare alla deriva, per vedere il marito continuare a vivere in quegli occhi e in quei riccioli scuri.
Non so se nonno Cristoforo fosse credente. Il nome, che mi è rimasto attaccato in suo ricordo, accanto a quello dell’arcangelo annunciatore e del nonno mugnaio, lo farebbe supporre. Non conosco quasi niente di lui, forse parlarne era ancora aprire una piaga, anche dopo tanti anni. So per certo che la scelta che gli è costata la vita è stata atto d’amore grande e obbedienza al primo comandamento: quello di vivere liberi.
Sì, perché non è vero che il primo comandamento è: ama il Signore Dio tuo. Quello viene dopo. Prima di amare Dio è necessario amare la libertà, bisogna prima di tutto aver cuore libero. L’amore, in qualsiasi forma, non sopporta costrizione, può vivere solo in piena libertà.
La foto di Nonno Cristoforo sul comò della casa di Borgo mi ricorda in continuazione che servire la libertà significa però scegliere una padrona esigente. Molto più comode le facili scorciatoie del conformismo, dell’adeguamento, del legalismo. Molto meno rischioso stare sempre dalla parte del più forte e non contraddire mai chi comanda.
Penso sovente che la mia generazione abbia vissuto una parentesi di libertà facile, e questo, a sbirciare appena la storia, è cosa quasi inaudita.
Altri ce l’hanno regalata, questa libertà, pagandola a caro prezzo.
La mia disattenta generazione dovrebbe sentire l’enorme debito che la nostra spensierata libertà ha contratto nei confronti di tutti questi martiri, volontari o involontari, dell’eterna lotta dell’uomo contro ogni oppressore.
Abbiamo ricevuto un dono enorme, e nemmeno ce ne rendiamo conto.
Giovanni, l’evangelista, al capitolo quattro dice: -Altri hanno faticato prima di voi e voi siete venuti a raccogliere i frutti della loro fatica -.
Non solo non ne serbiamo memoria riconoscente, ma sprechiamo allegramente quel capitale di libertà e benessere che è costato sangue e fatica a chi ci ha preceduto.
Le storie dei miei due nonni, così come i loro caratteri e le loro persone, sono molto diverse, ma a guardarle bene sembrano completarsi a vicenda e incastrarsi in un unico quadro. Sono storie di grano e di carta, di macchinari in movimento che trasmettono rumori e vibrazioni, di lavoro quotidiano e di famiglia da crescere, di speranze e di tragedie, di disgrazie e di rinascita. Storie di persone che vanno a sbattere contro la Storia, contro la repressione, l’assurdità delle guerre, la malvagità degli uomini e gli scherzi del destino. Storie di persone che si ostinano a rimanere libere nel pensiero e nelle azioni. È questa l’eredità che hanno lasciato ai figli, Giovanni Battista, Marisa e Aldo, a me, a mio fratello e ai bisnipoti.
Un’eredità ricca, bella e pesante, perché la libertà è padrona molto generosa, ma anche molto esigente. È però l’unica via verso una possibile felicità. Come dice Giacomo nella sua lettera: «Chi fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà e vi resta fedele…come uno che la mette in pratica, costui sarà un uomo felice in tutto ciò che fa» (Gc 1, 25).
Dal nonno Pietro ho ereditato la voglia, l’ansia e il piacere di coltivare la terra, di chiamare lavoro quello fatto con le mani e la schiena, di aspettare la primavera dopo l’inverno e l’autunno dopo le estati, il sole dopo la tempesta e la pioggia dopo la siccità.
Dal nonno materno e sconosciuto mi piacerebbe aver ereditato la capacità di scrivere e parlare guardando sempre in faccia la verità, senza mai passare le parole al setaccio della convenienza, dell’opportunismo, delle possibili conseguenze.
Da entrambi mi piacerebbe aver preso un briciolo di quell’ostinazione a voler vivere liberi, pensare con la propria testa e lavorare con le proprie mani.
Cervasca, iniziato nel 2003 (parte di un lungo racconto a futuro uso dei figli)
Pubblicato su La Guida del 2 gennaio 2025