Semplicità fa rima con libertà
La volta scorsa avevo messo in luce gli aspetti più positivi e consolanti del passato, giocando un po’ sui diversi significati della parola, fra epoche storiche, tempi verbali e gastronomia spicciola.
Certo, voltandosi indietro, non possiamo non avere anche rimpianti (e, in certi casi, rimorsi). Ma i rimpianti hanno valore solo se li trasformiamo in progetti, in reazioni costruttive. Altrimenti sono solo un peso che ci portiamo inutilmente dietro.
Il ciclo vitale di ognuno di noi è una parabola, nel senso di figura geometrica con un tratto ascendente seguito da una inevitabile fase discendente. Se proprio vogliamo continuare a giocare con le parole, la vita può essere anche una parabola nel senso “evangelico” del termine: un racconto che va oltre il suo significato letterale e nasconde dietro un’apparenza dimessa e quotidiana un contenuto alto e profondo. Ma restando nella geometria elementare, rimane l’ineluttabile e cruda realtà di una fase discendente più o meno ripida che segue sempre la crescita e la maturità.
In questa fase, che chiamiamo vecchiaia, è naturale rimpiangere i bei tempi andati e spesso associamo inconsciamente l’intero universo alla nostra personale decadenza. Il mondo va a rotoli, niente è più come una volta, non c’è più religione e via dicendo può diventare una litania che nasconde il fatto che noi non siamo più come una volta, che fatichiamo a rincorrere un mondo che cambia e va troppo in fretta per le nostre residue forze.
Tutto questo per dire che dobbiamo fare sempre attenzione a maneggiare i rimpianti per non entrare in una spirale autodistruttiva che colora di nero le nostre giornate senza portare alcun beneficio. Fatta questa premessa ed evitando quindi di esternare tutti quei piccoli e grandi rimpianti per le persone, le cose, le relazioni, le possibilità perse per strada, posso dire che del passato rimpiango soprattutto una cosa: la semplicità di vita.
Forse una volta la vita era più difficile, di certo era più faticosa, pericolosa, esigente. Ma nessuno può negare che un tempo la vita fosse molto più semplice, meno complicata. E la semplicità non è cosa da poco: è un grande valore e non è per niente una cosa facile.
Facile e semplice sono due falsi sinonimi, spesso nel parlare li scambiamo con indifferenza, ma in realtà sono concetti molto diversi, a volte addirittura opposti. La vera semplicità non è mai cosa facile e per raggiungerla occorre un certo talento e molta pratica. Si tratta, in fondo, di un’esperienza comune: a molti sarà capitato di avere un buon insegnante che riesce a rendere accessibile e “semplice” anche la teoria della relatività ristretta di Einstein, o, al contrario, di imbattersi in testi legislativi, normativi o tecnici che usano un linguaggio talmente complicato da rendere incerti o complessi anche i concetti più elementari. Basta leggere qualsiasi “bugiardino” di un qualsiasi farmaco, o le istruzioni per l’uso di qualsiasi attrezzo per avere esempi concreti di come sia possibile scrivere tutto meno quello che servirebbe davvero, usando un linguaggio criptico, vago e contorto. Per non parlare di qualsiasi normativa prodotta da enti di qualsiasi livello, locale, nazionale o europeo.
La semplicità non è un valore da poco, una cosa secondaria: dovrebbe essere l’essenza di ogni nostro rapporto e della vita sociale e relazionale. Semplicità è sorella della chiarezza, e quindi dell’onestà e dell’efficacia. E magari è proprio questo il motivo della sua scarsa fortuna e diffusione.
Ma semplicità fa soprattutto rima con libertà: una vita complicata non può essere libera.
Tutte le dittature si basano sul controllo ossessivo delle piccole cose, vivono di complicazioni, di un apparato burocratico capillare e pervasivo. Quando curiosavo negli archivi comunali mi stupivo di quante piccole norme controllassero ossessivamente la vita quotidiana anche nei paesi sperduti delle nostre valli nel ventennio fascista. Bisognava dichiarare muli, asini, vacche, pecore, capre, maiali (sia in proprietà che “in affitto”), cani (divisi in cani da guardia, da caccia e “di lusso”) e anche qualsiasi giacenza di prodotti alimentari e il possesso e l’uso di trebbiatrici anche manuali.
Anche il parroco di Castelmagno, don Bernardino Galaverna, non sfuggiva alla norma e denunciava di “tenere in casa sua per proprio uso 36 chili di riso, 30 chili di grano e 30 di meliga”. Insomma, aveva in dispensa il necessario per passare l’inverno e magari riusciva anche ad aiutare qualche compaesano più povero.
Non era solo una questione fiscale: il controllo delle piccole cose di ogni giorno abitua a sottostare a un potere che col tempo diventa assoluto, rende normale l’ingerenza dello stato nella nostra quotidianità. Basta guardare cosa succede in Iran, dove il regime vive proprio sul controllo ossessivo di vestiti, comportamenti, relazioni.
La libertà procede dal basso verso l’alto, diceva Erri De Luca, alludendo al fastidio giovanile per scarpe e calze e al piacere dei piedi non imprigionati dal peso delle calzature. Non so quale sia direzione e verso della libertà, ma concordo pienamente col senso figurato della frase. La libertà parte dalle piccole cose, la libertà con la L maiuscola consiste di tante piccole libertà spicciole, a cominciare da come vestirsi, come relazionarsi con gli altri.
La libertà vive e prospera nella semplicità e viene soffocata dalle eccessive complicazioni. Anche per questo dobbiamo pretendere dai nostri eletti leggi semplici, chiare e soprattutto “poche”. Ne abbiamo già qualche decina di migliaia di troppo.
Pubblicato su La Guida del 24 ottobre 024