Una proposta impresentabile
Sui quotidiani del 22 luglio era riportata la notizia della proposta di legge di un senatore leghista sulla “tutela della lingua italiana rispetto alle differenze di genere”. Il testo prevedeva il divieto di usare il femminile per incarichi, professioni e titoli e comminava multe pesantissime per i trasgressori. Usare la parola “sindaca”, per esempio, poteva costare fino a cinquemila euro di ammenda.
Una proposta del genere, fra l’altro espressa nel solito linguaggio burocratico e confuso, non ha bisogno di commenti. Simili fantasie legislative definiscono il livello intellettuale e culturale di chi le inventa o, in alternativa, sono studiate apposta, nella loro eclatante assurdità, per provocare commenti e reazioni. Nella società della comunicazione, dell’apparenza e della popolarità ad ogni costo, qualsiasi cosa va bene per far parlare di sé, per far circolare sui media nomi e volti, per costruirsi una fama e una notorietà difficilmente raggiungibili con l’impegno concreto quotidiano.
La reazione adeguata sarebbe quindi il silenzio, per non cadere nella trappola costruita ad arte fornendo una pubblicità gratuita e immeritata a chi vuole ad ogni costo vedere il proprio nome rimbalzare su video, giornali e televisioni.
Ma nello stesso quotidiano era contenuto il resoconto dell’aggressione squadrista a un giornalista da parte di neofascisti e la tiepida reazione del governo. Nei giorni precedenti potevamo leggere i numeri folli della corsa agli armamenti, con stanziamenti sempre maggiori di fondi (24 miliardi solo per mezzi corazzati) a scapito di tutti gli altri settori (sanità, istruzione, previdenza). Aggressioni squadriste, controllo dell’informazione, crescente militarizzazione del paese, “tutela” della lingua…
Tanti indizi messi insieme forse non fanno una prova, dal punto di vista giuridico. Ma di certo, il susseguirsi di tutti questi segnali inquietanti ci deve preoccupare e spingere a reagire. Invece di pensare a “tutelare” la lingua, forse sarebbe il caso di tutelare la nostra pericolante democrazia.
Tutte le dittature e in particolare quelle di matrice fascista cercano ossessivamente (ma per fortuna, inutilmente) di controllare la lingua, ben sapendo che controllare le parole è il mezzo per condizionare il pensiero e l’azione. Nel ventennio fascista era vietato il lei di cortesia, sostituito da un altrettanto assurdo “voi” e si applicava una folle autarchia linguistica impedendo l’uso di parole straniere. Anche i dialetti e le lingue locali erano messe al bando, in nome di un’italianità artificiosa e assurda.
Per fortuna, la storia e lo stesso studio delle lingue e delle parole ci dimostrano che questo genere di provvedimenti è sempre inutile e spesso controproducente. La lingua la fa chi la parla e la scrive, è materia viva e reattiva, non la plasma la legge ma l’uso quotidiano. Le parole sono più forti e durature di qualsiasi regime, sopravvivono nei millenni, si trasformano e si nascondono senza mai sparire del tutto.
Nei nomi dei nostri paesi rimangono tracce dei popoli celti e dei galli liguri, l’impero romano è crollato da secoli e l’antica Grecia non è più la culla della cultura, ma in ogni nostra parola rimangono pezzi vivi del greco e del latino. Addirittura nel nostro piemontese ci sono frammenti di lingue arabe, i ramasìn e o gli armugnàn che mangiamo in questi giorni ce lo ricordano.
La proposta di legge rivela quindi anche la discutibile base culturale linguistica e storica di chi l’ha ideata. Le lingue non hanno bisogno di “tutori”. E, in ogni caso, “tutelare la lingua” è impegno che non passa attraverso norme, imposizioni o divieti, ma si concretizza con l’uso quotidiano, lo studio e la passione di ognuno. Non si tratta quindi di tutelare, ma di prendersi cura.
Preoccupante è anche la visione retrograda e misogina della proposta di legge. Dietro al divieto del femminile “per titoli istituzionali dello stato…titoli professionali, onorificenze e incarichi” e l’imposizione del “maschile universale da intendersi in senso neutro” si cela l’implicita premessa che il mondo del lavoro, del potere e delle professioni sia prerogativa maschile. La presenza femminile sembra quasi una concessione, tollerata alla condizione che non appaia troppo e resti in posizione subordinata.
Un breve commento lo richiede anche l’entità assurda delle multe previste dal provvedimento: cinquemila euro, una cifra forse modesta per gli standard retributivi del senatore proponente, ma di certo pesante per tutti i comuni mortali, lavoratori, disoccupati e pensionati e del tutto sproporzionata alla “colpa”.
Mi fa sorridere che la proposta sia arrivata dall’esponente di una forza politica condannata per aver fatto sparire 49 milioni (poi diventati 60), reato prescritto ma di fatto accertato dai tribunali e confermato nei diversi gradi di giudizio. Usando normali criteri di proporzionalità, se chi scrive in un documento ufficiale “sindaca” invece dell’orribile “signora sindaco” dovesse venir condannato a una sanzione di cinquemila euro, quale pena meriterebbero i responsabili di un danno di decine di milioni a stato e cittadini?
Si potrebbe immaginare che lo stesso leader della Lega Salvini abbia pensato a quest’ultima banale considerazione, visto che già nel primo pomeriggio dello stesso giorno i media diffondevano la notizia del ritiro del provvedimento, considerato un’iniziativa del tutto personale del senatore Potenti.
Una proposta di legge, quindi, talmente “improponibile” da essere velocemente nascosta sotto il tappeto. Ma che rivela, comunque, un certo grado di confusione linguistica ed esistenziale, in un Paese governato da una donna che si fa chiamare “il” Presidente.
Pubblicato su La Guida del 25 luglio 024