Coltivare la terra, fra libertà e responsabilità
Può sembrarci strano, ma coltivare la terra è prima di tutto una questione di libertà.
Non solo perché in mancanza di libertà la fatica si traduce in schiavitù e si diventa servi della gleba, ma anche perché, come ci dimostra la storia locale, la nostra libertà è stata costruita proprio conquistando il diritto di possedere e coltivare la terra.
Già negli Statuti medievali dei nostri comuni si percepisce questo stretto collegamento fra terra e libertà, fra autosufficienza alimentare e difesa dei diritti personali e sociali. Il progressivo superamento delle imposizioni feudali e del potere dei signorotti locali è passato proprio attraverso la lenta conquista della piccola proprietà contadina, la difesa del patrimonio di beni comuni e la pratica dei lavori agricoli collettivi. I “consortes bealeriarum”, che scavavano e gestivano le opere irrigue sono stati, a partire dal Quattrocento, una efficace palestra di democrazia. Nella stessa parola “consortes” è contenuta la consapevolezza di condividere la stessa sorte, la certezza di non poter far da soli e la volontà di trovare soluzioni comuni; ma anche la pretesa di darsi le proprie regole e di non subire troppe imposizioni esterne.
Questo lento processo di costruzione della libertà lo possiamo vedere chiaramente curiosando negli Archivi storici dei nostri comuni, dove ci imbattiamo di frequente nel termine “particolare” usato come sinonimo di abitante o residente. Ai giorni nostri la parola è usata quasi solo come aggettivo, e spesso con sfumature poco positive. Nei secoli scorsi era invece il sostantivo di gran lunga più frequente nei verbali dei consigli comunali. Particolare era chi possedeva almeno una particella di terreno registrato a Catasto e quindi “esisteva” come contribuente, ma anche come persona, titolare di diritti e doveri. In alternativa si era semplicemente “miserabili”, titolo che aggiungeva alla comune povertà condivisa e dignitosa un accenno di vergogna.
Anche per questo, in passato nelle nostre valli e campagne, l’obiettivo di tutti era di arrivare, magari dopo anni di duro lavoro, emigrazioni e traversie, a possedere un pezzo anche minimo di terra.
Non si trattava solo di garantire a se stessi e alla famiglia il cibo necessario alla sopravvivenza, ma era anche e soprattutto una questione di libertà, indipendenza e dignità. Possedere un appezzamento anche piccolissimo di terreno era il primo gradino del riconoscimento sociale e una conquista che significava, allora, diventare “padrone” (il dominus latino) di una porzione di mondo su cui vivere liberi.
Anche se spesso non ce ne rendiamo conto, noi siamo il prodotto della nostra storia, ci portiamo scritto dentro un passato remoto e prossimo che condiziona il nostro presente. Proprio per questo, io sono convinto che il giustificato malcontento del mondo agricolo sia una questione complessa, che va ben oltre i problemi di economia spicciola in cui vogliono ingabbiarla. Non si risolverà con contributi, deroghe, esenzioni o con tutti i piccoli o grandi regali con cui vogliono mettere a tacere le proteste. È, prima di tutto, una questione di libertà.
Chiunque lavori la terra sente il peso di una burocrazia asfissiante e di un sistema di regole e controlli opprimente e controproducente. Ogni nuova forza politica che periodicamente si presenta sulla scena, dice di voler eliminare la burocrazia e poi finisce di aumentarla. Le scuse sono sovente parole belle e condivisibili (sicurezza, salute, ambiente) intese spesso come forma con ben poca sostanza, ma la motivazione di fondo è la totale sfiducia nel cittadino e nel lavoratore, considerato un minorato o un deficiente che deve essere attentamente controllato, seguito, monitorato e certificato. Una sfiducia che genera sfiducia, per la normale legge della reciprocità, e che porta all’attuale situazione di conflitto, insofferenza, diffidenza.
Ma ogni libertà si basa sulla responsabilità nei confronti degli altri e dell’ambiente in cui si lavora. Per questo, un altro aspetto importante delle attuali proteste contadine è proprio la questione ambientale.
Purtroppo, proprio su questo punto, improvvisati capipopolo e forze politiche che speculano su delusione, frustrazione e rabbia hanno buon gioco a manipolare a proprio favore giusti elementi di protesta contro normative spesso assurde e controproducenti, dando la falsa impressione che tutto il mondo contadino abbia a cuore solo il gasolio a buon mercato, trattori sempre più spaziali e la licenza di spandere senza troppi vincoli prodotti chimici nei campi.
E’ una realtà incontestabile che l’attuale agricoltura “industriale” (due termini antitetici, quasi un triste ossimoro) sia responsabile di un grave e difficilmente reversibile degrado ambientale. Avvelenare la terra con sostanze chimiche persistenti e dannose è, a mio parere, un delitto pari a quello di continuare a cementificarla, anzi, forse ancora peggiore, perché più subdolo, meno visibile e più dannoso per la salute.
Ma è altrettanto vero che i primi danneggiati dall’uso di sostanze chimiche pericolose sono proprio gli stessi agricoltori, sia per evidenti motivi di manipolazione e contatto, sia per il gioco al ribasso sul versante economico che finisce per mettere fuori mercato chi lavora in modo pulito. Un gioco al ribasso davvero suicida, in cui si è costretti a lavorare sempre di più per guadagnare sempre di meno, che alla fine, risulta punitivo anche per chi si adatta a inseguire a qualsiasi costo miraggi di produzioni sempre crescenti e tecnologie sempre più sofisticate e costose. Chi ci guadagna davvero è solamente l’industria che fornisce i prodotti chimici o tecnologici (le solite multinazionali con fatturati miliardari), mentre tutti gli altri soggetti coinvolti (imprenditori, lavoratori e consumatori) finiscono per perderci in modo grave.
Secondo i dati del WWF l’Italia è stata nel 2022 il sesto utilizzatore al mondo di antiparassitari in campo agricolo: oltre 114 mila tonnellate di prodotti sparsi nell’ambiente e sul terreno. A livello mondiale si utilizza più di mezzo chilo di “pesticidi” a persona all’anno, per un totale di milioni di tonnellate di prodotti tossici. Una vera follia, da tutti i punti di vista: ecologico, sanitario, ma anche economico.
Chiunque lavori a qualsiasi titolo in campo agricolo, ma soprattutto i piccoli imprenditori e coltivatori diretti, hanno tutta la convenienza a fermare questo gioco al massacro e praticare un’agricoltura pulita, libera e responsabile.
Quando i trattori di mezza Europa hanno iniziato a invadere le città per far sentire le giustificate proteste dei coltivatori, l’unica e immediata reazione della Presidente della Commissione Europea è stata quella di rinviare “sine die” il preventivato taglio del 50% dell’uso di pesticidi in agricoltura entro il 2030.
Un aiuto concreto agli agricoltori o un bel regalo alle multinazionali della chimica?
La risposta ognuno può darsela da solo. In ogni caso, una tempistica eccezionalmente veloce, senza tentennamenti o discussioni, alla faccia di chi accusa l’Unione Europea di essere lenta nel decidere e incapace di reazioni immediate. A dimostrazione che, se l’Europa dei cittadini e degli stati è ancora da costruire, quella delle lobbies industriali e finanziarie funziona già benissimo.
Pubblicato su La Guida del 22-2-024