Camminare d’autunno in bassa valle
“E’ autunno, cadono le foglie” era il titolo del tema che ogni anno ci aspettava al rientro scolastico, nei primi giorni di ottobre. Anni 60 del secolo scorso, anzi, dello scorso millennio, tempi di minor fantasia didattica o, forse, di maggior concretezza e semplicità. Il titolo scritto dalla maestra sulla lavagna, assieme all’odore dell’inchiostro versato nei calamai dalla bidella, ai grembiulini neri, colletti bianchi e fiocchi azzurri segnava la ripresa della scuola dopo la lunga pausa estiva e ci avvertiva concretamente che le vacanze erano finite, riprendeva la prigionia dei banchi in legno, della mano alzata per poter andare al gabinetto e delle poesie da imparare a memoria.
Adesso, a oltre mezzo secolo di distanza, la caduta delle foglie mi ricorda invece che inizia il tempo delle camminate in bassa valle.
L’estate è stagione, per chi può, di alte quote, rifugi, cime, colli. L’autunno, metereologico ed esistenziale, ci invita a passeggiare non troppo lontano da casa e a riscoprire le tante meraviglie nascoste a portata di scarpone. La caduta delle foglie libera finalmente la vista e permette di ritrovare scorci di paesaggio nascosti in estate dal monotono velo verde del bosco d’invasione.
Le basse valli, un tempo fittamente popolate e intensamente coltivate, sono ora coperte da un’informe buschina che di fatto cancella la meravigliosa varietà della montagna abitata e coltivata con attenzione e cura. Una ben triste wilderness, per usare uno dei tanti termini inglesi che hanno invaso la nostra vita. Parola di moda e usata con una connotazione positiva, ma che in realtà nasconde solo decenni di abbandono, incuria e degrado.
Come evidenzia molto bene il geografo Werner Batzing nel suo fondamentale saggio sulle Alpi, il termine inglese, nelle nostre valli, si basa su un equivoco: wilderness designa un ambiente naturale per nulla influenzato dall’uomo, che nelle nostre montagne non esiste. Quello che sta accadendo è soltanto un graduale abbandono e inselvatichimento di un territorio in passato fortemente modificato dal lavoro dell’uomo. Lavoro continuo e tenace, attuato con la sola forza umana ed animale, che nel corso dei secoli ha plasmato un paesaggio meraviglioso, in cui natura e persone convivevano in buona sintonia. Anche le case, le strade i muretti, i terrazzamenti erano parte integrante dell’insieme naturale: il materiale da costruzione era stato roccia, le travi alberi. Nessun elemento estraneo, nessuna nota stonata. Anzi, l’opera dell’uomo, con il paziente lavoro di innumerevoli generazioni, aveva aumentato la già marcata articolazione dell’ambiente alpino. Il paesaggio risulta così arricchito da tantissimi elementi diversi: sentieri, muretti, ciapere, edifici, campi coltivati, filari di alberi, forni, abbeveratoi. Tutte opere perfettamente inserite nel quadro d’insieme, e che ne aumentano la complessità, la varietà e, in definitiva, la bellezza.
Ne trae vantaggio perfino la “biodiversità”, altro termine diventato di moda e usato sovente a sproposito. Lo stesso Batzing ricorda che in tempi preistorici le nostre Alpi erano coperte da foreste informi e tutto sommato, monotone. In fondo, è stato il montanaro a creare la montagna, così come la vediamo e la apprezziamo ancor oggi. La particolare e meravigliosa bellezza del paesaggio alpino non è solo un regalo di una natura generosa, ma è anche il risultato di secoli di “sfruttamento” agricolo tradizionale del territorio.
L’autunno, la primavera e anche l’inverno sono le stagioni migliori per dedicarsi alla scoperta di questo mondo, così vicino a noi geograficamente e storicamente, ma ormai sovente così distante dal nostro quotidiano da richiedere qualche riflessione preliminare, prima di infilarsi gli scarponcini ai piedi e iniziare il “viaggio”.
Le nostre valli in passato erano caratterizzata da una società diffusa a presidio di un territorio usato con intensità e con cura. I luoghi in cui vivere erano scelti in funzione delle potenzialità agricole del territorio e della necessità di minimizzare spostamenti umani, di animali e di prodotti di scorta.
In pianura o in bassa valle questo si traduceva in case isolate, sparse, o più facilmente raggruppate in insediamenti di poche famiglie, quelli che chiamiamo spesso “tetti”. In media e alta valle le esigenze di aiuto reciproco per le forti nevicate e il clima più difficile imponevano aggregazioni più numerose e le borgate diventavano più grandi e articolate, spesso con passaggi coperti ed edifici collegati fra loro.
A bassa quota e nei versanti ben esposti erano frequenti le “case lunghe”, costituite da molti edifici accostati con colmo parallelo alle curve di livello, in modo da avere una grande facciata a sud. Sopra i 1000-1200 metri prevalgono le case a gradino, che seguono e sfruttano la pendenza del terreno. Questa tipologia permette a ogni successivo edificio di godere del soleggiamento nel frontespizio che si eleva sopra il livello del tetto della casa sottostante, mentre quella sovrastante protegge il lato peggio esposto.
La casa a gradino è quindi costruita su pendii in forte pendenza e rappresenta una soluzione molto razionale, capace di trasformare lo svantaggio del terreno scosceso in un fattore positivo.
Non è però questa l’unica differenza che riscontriamo risalendo le valli verso quote più elevate. Nonostante possa sembrare sorprendente vista con i parametri attuali, in passato la bassa valle era senz’altro la parte più povera e svantaggiata della montagna. Gli ampi pascoli delle alte valli garantivano un carico di bestiame maggiore e quindi un reddito più elevato. Le basse valli in un passato non lontano erano povere e decisamente sovrappopolate. Le dimensioni aziendali erano minuscole e la sopravvivenza ancora più difficile e precaria rispetto alle alte quote. Il clima più favorevole e la minor quantità di neve invernale permetteva, per contro, una maggior permanenza e attività all’aria aperta. Questo spiega la diversa organizzazione della casa di bassa valle e le sue dimensioni decisamente più modeste.
Moltissime borgate delle nostre zone sono state costruite appena sopra la quota superiore del castagneto e appena sotto i grandi prati e gli alpeggi estivi. La ragione è semplice e concreta: è più facile portare su qualche sacco di castagne e giù quintali di fieno che viceversa. Inoltre non si sottraeva terreno prezioso alla coltivazione occupandolo con fabbricati. Questo spiega l’enorme quantità di borgate fra i 1000 e i 1300 metri e ci fa capire quanto fosse importante in passato la castagna e il castagno.
Il frutto, che adesso ci ricorda i mundai e le balote, era un tempo, assieme ai pochi cereali e latticini, la base assoluta dell’alimentazione e la garanzia della sopravvivenza invernale. Comprare un castagneto in un paese di fondovalle era anche il sogno e la forma di investimento di molti abitanti delle terre alte. I Catasti del 700 di molti paesi della bassa val Grana sono pieni di nomi di proprietari di Castelmagno e a Boves addirittura un quarto dei preziosi castagneti (considerati i migliori della provincia) erano in quel periodo di proprietà di “particolari” di Limone, che investivano così i proventi del contrabbando di sale. Ne dà notizia lo stesso Intendente Brandizzo, la massima autorità civile di allora.
Ancora nel Novecento i censimenti ci ricordano che alcune famiglie di bassa valle possedevano come unico immobile il secòu, l’essiccatoio che doveva dare ricovero a persone e piccoli animali, oltre che affumicare le castagne. Una anziana signora di Valloriate mi raccontava dei tempi della sua infanzia e dei mesi autunnali in cui tutta la famiglia numerosa viveva nello stretto locale pieno di fumo, con gli occhi che lacrimavano e i vermetti delle castagne che cadevano nei piatti della zuppa dal graticciato sovrastante. Non era tutta poesia, la vita di un tempo nelle valli, come potrebbe pensare chi in montagna non ha mai davvero vissuto e lavorato.
Ogni valle ci regala percorsi ad anello che ci permettono di ottimizzare i tempi delle nostre passeggiate a bassa quota. Nello studiare l’itinerario bisogna solo prestare attenzione a cercare tetti e borgate più marginali, raggiungibili con stradine o sentieri. Spesso le strade carrozzabili, costruite in genere dopo il grande esodo del primo dopoguerra, sono servite a portare giù la gente e su le brutture, permettendo ristrutturazioni poco rispettose e spesso decisamente fuori luogo.
Approfittare dell’autunno e della vista regalata dalla caduta delle foglie ci permette di gironzolare in bassa quota regalandoci ogni volta un itinerario diverso e realizzando un nostro personale “cammino”. Perché, come scriveva Machado, il cammino non esiste, si crea camminando: “caminante no hay camino, se hace el camino al andar”.
Frase molto bella nella musicalità della lingua originale, con significati profondi e traslati, ma anche con un aspetto concreto: è proprio percorrendoli che si mantengono gli antichi sentieri, che altrimenti sarebbero anche loro cancellati dalla triste wilderness di cui si diceva all’inizio.
Pubblicato su La Ciapera del dicembre 023