Ordinati Vignolo 1770-4: anni di carestia e prezzo del grano
Le consuete annotazioni per le variazioni della tassa sul sale occupano nell’anno 1773 molte pagine del registro dei verbali. Decine di famiglie hanno tassazione ridotta per le condizioni di estrema povertà “attesa la corrente carestia”. La situazione si fa grave nella primavera e il 12 maggio il consiglio, in risposta a un editto reale che chiedeva “la quantità di grano che resta indispensabile a particolari e poveri di questo Luogo e suo territorio sino al nuovo raccolto” fa sapere che sono necessarie almeno 350 emine di grano e 50 di riso.
Il problema è che, come capitava allora in tempi di carestia, il prezzo del cereale era cresciuto in modo incontrollato, tanto da spingere lo stesso sovrano a intervenire fissandolo a cinque lire e mezzo per emina e provvedendo direttamente alla distribuzione. La Comunità di Vignolo, attraverso i suoi eletti, “supplica Sua Maestà volersi degnare di somministrare” la quantità necessaria di frumento e riso, “colla dilazione però di un anno per il pagamento”. La risposta è in perfetto stile burocratico: “non vi è nulla in contrario a fornire grano e riso”, ma bisogna pagarlo subito…
Un prezzo del grano di 4 lire e 10 soldi per emina (misura di capacità che corrisponde a circa 18 chili) in tempi in cui il messo comunale era pagato 40 lire all’anno era del tutto fuori della portata della quasi totalità delle persone. Sarebbe più o meno come se ai giorni nostri un chilo di farina costasse oltre duecento euro. È vero che fare paragoni economici fra epoche diverse è cosa poco sensata, ma è comunque evidente che in passato nei nostri paesi la fame era la triste realtà quotidiana per una larga fascia di popolazione.
In qualche modo, comunque, in quel difficile 1773 la Comunità di Vignolo riesce ad ottenere 150 emine di frumento (27 quintali), meno della metà di quelle ritenute necessarie e incarica il sindaco Bartolomeo Bruna “di distribuire detto grano” ai miserabili attraverso la locale Congregazione di carità e “ai particolari sprovvisti di grano mediante il pagamento di esso in ragione di lire 4 soldi 10 per emina”. A questi ultimi è concessa una dilazione di pagamento di tre mesi, ma “sotto obbligazione dei beni presenti e futuri” in caso di mancato saldo della cifra dovuta.
Nelle “annate storte” che, come ben sa chi ha esperienza di campagna capitano con regolare frequenza, anche i “particolari” meno poveri dovevano fare i conti con le scorte che a primavera si esaurivano, ben prima che il nuovo raccolto fosse maturo per la trebbiatura. Una quota non piccola di quest’ultimo era poi destinata alla semina e quindi non utilizzabile per l’alimentazione. Anche chi aveva proprietà fondiarie e quindi era relativamente “ricco” era costretto nella tarda primavera delle tante annate balorde a comprare il grano a un prezzo esorbitante, sperando che il nuovo raccolto fosse poi sufficiente per saldare il debito contratto.
Per i tanti “miserabili”, l’unico soccorso era rappresentato in quegli anni dalle Congregazioni di carità, le sole istituzioni che provvedessero, almeno in piccola parte, alle drammatiche esigenze dei molti poveri nelle ricorrenti annate di carestia. Avevano ereditato beni e redditi delle Confratrie, disciolte per Regio decreto nel 1717 e quindi, in molti casi disponevano di immobili, capitali e strutture che si erano accumulati nei secoli precedenti. Nella Relazione del 1716, conservata nella biblioteca del Seminario a Cuneo, si legge che, all’epoca a Vignolo i mendicanti erano 100 su una popolazione di 350 persone (oltre un quarto degli abitanti). Tutti questi poveri non avevano “altro soccorso certo che quello della confratria” e un aiuto distribuito “dalla Comunità in occasione della Benedizione della campagna consistente in 12 lire annue”.
Il Brandizzo, nella sua Relazione del 1753 ricorda che la Congregazione di Vignolo era “assai comoda”, cioè ricca. Come erede dei beni della Confratria possedeva un mulino affittato per 272 emine di segale all’anno, un forno che rendeva 100 lire annue e un “censo”, cioè un capitale di ben 3300 lire, “impiegato al 6%”. Tutti redditi che, in epoche precedenti, la confratria usava, secondo il Brandizzo “per impinguare i ceci nella festa di Pentecoste” e che, in occasione della carestia, diventavano preziosi per soccorrere la popolazione.
Certo, le 150 emine comprate a caro prezzo da Sua Maestà erano ben poca cosa per soddisfare sia le esigenze delle molte famiglie rimaste a corto di provviste che la fame del centinaio di miserabili, ma è interessante notare che, anche nel lontano passato c’era nei nostri paesi una diffusa solidarietà ed esistevano strutture ben organizzate in grado di affrontare anche terribili emergenze.
Di certo, la solidarietà attiva e organizzata è cosa che ha radici profonde nel nostro territorio, fin da tempi davvero remoti. Anche questa è una delle tante eredità da non disperdere e delle tradizioni da non tradire.
Pubblicato su La Guida del 6-7-023