Autosufficienza 6: dal grano al pane

Per una strana coincidenza mi era capitato di scrivere il pezzo della volta scorsa sui cereali proprio mentre in casa stavamo facendo il pane.
Il rituale della preparazione dell’impasto e della cottura nel forno a legna è fatto di pieni e di vuoti, cioè di momenti di attività intensa, in cui è necessario anche affrettarsi, seguiti da lunghi tempi di attesa e inattività. Dopo aver acceso il forno e messo la farina a lievitare ci sono lunghe pause, interrotte dal controllo della fiamma, l’aggiunta di fascine, il reimpasto della massa in fermentazione, la suddivisione in pagnotte. Avevo approfittato di questi tempi morti per dare un’occhiata al computer, e guardando le mie mani ancora sporche di farina, mi ero accorto di aver iniziato a parlare di autosufficienza partendo dalla frutta e dalle noci, senza tener presente che prima di ogni altra cosa c’è il pane quotidiano. Appena sfornate le pagnotte sono quindi tornato alla scrivania e ho cercato di rimediare alla mancanza.
Nella precedente chiacchierata avevo anche raccontato la mia deludente e fallimentare esperienza di coltivatore di frumento e aspirante mugnaio e avevo constatato come proprio la produzione di cereali, che in tempi passati era la base dell’agricoltura di autosufficienza, fosse diventato il settore in cui è più difficile fare da soli.
La cosa ci insegna anche a considerare sempre le idee che ci spingono ad agire come mezzi per una vita equilibrata e felice e non come fini, evitando qualsiasi forma di estremismo ideologico e di intransigenza, anche con noi stessi. Inutile voler competere armati di cavalie, van e masuirot contro le moderne mietitrebbie. In questo senso, l’aver provato le fatiche passate, spinge ad apprezzare ancor di più l’aiuto della moderna tecnologia, che, usata bene, può davvero essere liberante.
Se anche abbiamo rinunciato a coltivare e macinare il nostro grano, possiamo comunque scegliere il tipo di cereali, di farina, di lievitazione e, infine, cuocere il nostro pane. Il passaggio tra grano e pane non è immediato e ci regala molti momenti in cui possiamo fare scelte importanti e lavorare in autosufficienza.
La prima scelta è su quale cereale usare, sia a livello di specie (frumento, segale, farro…) sia di varietà. In secoli di selezione il frumento ha prodotto varietà molto diverse, soprattutto per il differente tenore di glutine, ma anche per gusto, consistenza, colore.
Il farro è un cereale più antico, riscoperto e valorizzato di recente, che si divide in realtà in tre specie: il monococco, il dicocco e lo spelta. Il monococco è quello meno produttivo, perché, dei sei fiori di ogni giro della spiga, solo due (uno per parte) danno frutto. Dicocco e spelta hanno invece quattro fiori fertili su sei, raddoppiando teoricamente la produzione. Tutte le specie di farro sono ottime per contribuire a fare un pane di buon sapore e valore alimentare, ma una anche piccola percentuale dell’antico monococco dà un tocco particolare alle nostre pagnotte.
Anche la segale contribuisce a dare al pane un gusto apprezzabile, un colore più scuro e buone caratteristiche nutrizionali. Sia il farro che la segale contengono, sia pure in percentuali minori del frumento, il glutine, la proteina che rende l’impasto “impermeabile” e in grado di trattenere all’interno l’anidride carbonica sviluppata nella lievitazione. È quindi possibile fare un pane di solo farro o di sola segale, ma la mescolanza di diversi cereali rende migliore (almeno a mio parere) il risultato finale. Orzo, mais e avena, invece, non hanno glutine e quindi da soli non possono lievitare.
Sul glutine, ora demonizzato e un tempo ricercato (si selezionavano appositamente grani “di forza”, ad alto contenuto di glutine) ci sarebbe molto da dire, ma è meglio evitare di eccedere nelle divagazioni.
Meglio concentrarsi, una volta decisa la miscela di cereali da mettere nell’impasto, sulla scelta del tipo di macinazione. Un tempo i mulini erano solo a pietra, con macine molto pesanti che ruotavano lentamente. Le scanalature, periodicamente rinnovate col paziente lavoro di martello, convogliavano la farina integrale all’esterno, pronta per passare eventualmente nei “buràt”, per una raffinazione comunque grossolana (tipo 2 o tipo 1). Ora si usano anche mulini a cilindri e impianti in grado di produrre farine molto raffinate, quasi “atomizzate”, come la zero-zero o la zero.
Parallelamente alla ripresa economica degli anni del dopoguerra, il gusto del consumatore si è orientato verso un pane sempre più bianco, con farine molto fini. Il ricordo del “pane nero” (non solo perché integrale, ma soprattutto per l’aggiunta di elementi estranei alla farina) degli anni del conflitto era ancora troppo vicino. Ma la raffinazione fa perdere al cereale buona parte del valore nutritivo, soprattutto a livello di proteine e vitamine, contenute nel germe e nei tegumenti esterni del seme, che vengono scartati. Resta quasi solo l’amido, la componente di carboidrati. Il pane bianco è quindi un pane povero e squilibrato ed è meglio quello fatto con farine integrali o poco raffinate, come la tipo 2. Quest’ultima è un buon compromesso fra la necessità di preservare le parti nobili del seme e quella di non usare solo farine troppo grossolane.
Nel Questionario del 1782 del comune di Castelmagno si parla del formaggio prodotto in paese e si afferma che “la mescolanza del latte rende i frutti di miglior qualità”. Il “Castelmagno” di allora era quindi un formaggio fatto da latte bovino, caprino ed ovino mescolati, e questo era considerato un fatto positivo.
Sono convinto che anche nel fare il pane la mescolanza di cereali e di tipi di farine diverse possa essere un vantaggio, sia dal punto di vista del gusto che da quello nutrizionale. E, in ogni caso, scegliere e sperimentare diversi tipi di impasto è una componente essenziale del piacere di farsi il pane da soli.

Pubblicato su La Guida del 17-11-022