Autosufficienza 1: un seme che nasce da solo
Autosufficienza è una parola pericolosa, come capita con molti termini che si prestano a interpretazioni tanto diverse da diventare opposte.
Le parole sono come le montagne, hanno tante facce differenti, versanti con diversa esposizione e inclinazione e se ci limitiamo a considerare un unico lato rischiamo di travisarne completamente il senso. Cosa che in molti casi può essere davvero rischiosa e finisce per condurci a un significato esattamente contrario all’essenza del termine. Nessuno basta a se stesso, né dal punto di vista materiale, né da quello intellettuale, spirituale o sociale e quindi se diamo al termine autosufficienza questo valore di sprezzante esclusione della presenza altrui nella nostra vita ne facciamo davvero una brutta parola, fatta di vuota arroganza e di stupida presunzione. Il rischio di fraintendimento è contenuto in ogni sostantivo e aggettivo di ognuna delle innumerevoli lingue in cui si è frammentato il bisogno umano di comunicare. Tocca a noi riempire le parole di contenuti, farle diventare sostanza. E sceglierne il lato buono.
Così il termine “autosufficienza” può assumere la faccia escludente e stupida dell’autarchia fascista o quella severa, ma costruttiva e accogliente dello “swadeshi” gandhiano. Oppure ancora, possiamo costruirci una nostra particolare forma di autosufficienza che si adatti bene alle nostre esigenze, al nostro carattere, al periodo storico, alle possibilità reali, al contesto sociale.
Dobbiamo anche tener sempre presente che noi siamo eredi di una civiltà contadina e montanara che basava il proprio sostentamento su un’economia agricola di autosufficienza e, pur nei necessari e vorticosi cambiamenti degli ultimi decenni, possiamo e dobbiamo non tradirne l’essenza e lo spirito e magari recuperarne le molte cose buone, coniugandole con le opportunità che ci regala la moderna tecnologia.
In alcune chiacchierate vorrei sfiorare qualche aspetto passato e presente dell’autosufficienza nella vita quotidiana, mescolando scampoli di filosofia spicciola con argomenti pratici relativi al coltivare, all’abitare, al bere e al mangiare. Procedendo, come d’abitudine, per successive divagazioni, fra passato remoto e prossimo, presente e scorci di possibile futuro.
In molti casi prenderò spunto anche dalle mie esperienze di aspirante coltivatore, ormai da mezzo secolo alle prese con ortaggi, frutta e legname. Mettere nel piatto la propria verdura, le patate e i legumi dell’orto di casa, farsi pane e birra, scaldarsi con la propria legna è sempre stato per me una parte consistente del piacere di vivere, una fatica e una preoccupazione gioiosa, una ginnastica fisica e mentale utile e soddisfacente.
Coltura e “cultura” non hanno solo la stessa radice linguistica, ma sono termini quasi indistinguibili, fratelli gemelli che sarebbe un grave errore separare. Scienza e buon senso per una volta vanno d’accordo, quando affermano che noi “siamo” quel che mangiamo. Il materiale da costruzione per mantenere in efficienza il nostro corpo ci arriva dalla tavola e, se ciò che mettiamo in tavola proviene dal nostro orto, dal piacere e dalla fatica di far nascere e “allevare” ortaggi e verdure vive e vitali, sappiamo con certezza da dove vengono e come sono prodotte le materie prime che manterranno in buone condizioni il nostro corpo e il nostro spirito. In questo senso possiamo costruirci giorno per giorno la nostra salute, quella vera, che non è solo assenza di malattie, e godere di questo particolare aspetto dell’autosufficienza.
Allora capiremo senza troppe difficoltà quanto sia lontana, quasi opposta, dal cattivo pensiero dell’autarchia, del credersi sufficienti a se stessi. Il seme che nasce, la gemma che si apre, il bocciolo che si trasforma in fiore, il frutto che cresce e matura è sempre qualcosa che non dipende da noi, un regalo che ci viene donato e per cui provare riconoscenza e stupore. E più procediamo nel cammino della scienza, della biologia e della chimica che sta dietro al miracolo della vita, più ci rendiamo conto di quanto siamo lontani dal conoscerne davvero tutti gli aspetti. Il primo gradino di ogni scienza è capire la propria ignoranza, cosa che non sempre quelli che si definiscono scienziati hanno davvero capito.
Ho sempre trovato straordinaria la quasi sconosciuta e brevissima parabola del seme che nasce da solo, contenuta in soli tre versetti del capitolo 4 di Marco, e non riportata dagli altri evangelisti. Il seme germina e cresce, di giorno e di notte, sia che il seminatore sia sveglio, sia che dorma, e come questo avvenga “lui stesso non lo sa”.
Un invito a seminare (sia in senso figurato che in quello proprio), ma a non crederci artefici del miracolo della germinazione e della crescita. Un modo per capire che l’autosufficienza vera è la cosa più lontana in assoluto dalla presunzione di potercela fare da soli, di bastare a noi stessi, di essere noi gli artefici del miracolo della vita.
Pubblicato su La Guida del 13-10-022