Un vaccinato contento, ma deluso e preoccupato

Quando ero bambino, negli anni sessanta del secolo scorso, in classe con noi scolaretti delle elementari infagottati in grembiulini neri, colletti bianchi e fiocchi blu, c’era spesso qualche compagno segnato dai postumi della poliomielite. Durante l’intervallo noi giocavamo ai quattro cantoni nel corridoio, mentre lui se ne stava immobile accanto alla maestra o alla bidella. A oltre mezzo secolo di distanza, ricordo ancora bene quegli sguardi di invidia, tristezza e rassegnazione, che raccontavano, meglio di ogni discorso, come possa essere doloroso per un bambino vedere i compagni correre e scoprirsi diverso dagli altri.
Nella mia famiglia, sia da parte paterna che materna, c’erano stati parenti morti di tetano: una “magna” ancor giovane che si era punta un dito cucendo un bottone, il cugino che si era infettato per la piccola ferita di una runsa. Agonie terribili per una tossina che non perdonava e drammi famigliari che si aggiungevano alle tante traversie di una vita difficile e laboriosa.
A quei tempi, il ricordo del vaiolo era ancora vivo e capitava di incrociare persone col volto butterato dalla malattia. Per questo, un giorno nel cortile della scuola era arrivato un autocarro verde con la croce rossa e tutti eravamo stati vaccinati: un graffietto con una specie di pennino a imprimere quel piccolo marchio indelebile che noi vecchietti portiamo ancora sul braccio. Anni dopo sarebbero poi arrivati gli zuccherini di Sabin, un vaccino simpatico senza neppure il trauma della puntura, a immunizzare finalmente dalla poliomielite.
Sarà per questi ricordi di infanzia, più ancora che per i successivi studi scientifici, che ho sempre considerato i vaccini come una scoperta preziosa e una valida forma di difesa dalle malattie. Già nel nome, “vaccino”, come capita spesso, è contenuta tutta una storia. Un medico di campagna inglese, Jenner, a fine Settecento aveva notato che le mungitrici che toccavano le mammelle di vacche infette da vaiolo bovino non si ammalavano poi di quello umano e aveva provato la sua intuizione iniettando successivamente le due forme patogene su un bambino di otto anni. Il piccolino, eroe dimenticato e cavia ignara ed ignota, era sopravvissuto, per sua e nostra fortuna, alla doppia infezione. E nel nome “vaccino” è rimasto il ricordo e l’omaggio ai bovini da cui era nata tutta la storia. Per la scienza e per l’umanità una vera rivoluzione, proprio negli anni di quella francese che propagandava libertà, uguaglianza e fraternità. Tutte cose possibili solo se c’è la salute.
Ho fatto quindi volentieri, quando è stato il mio turno, la vaccinazione per il Covid. Ottima organizzazione, quasi nessuna attesa, personale efficiente e gentile, clima disteso. Ho aderito con convinzione, anche se ben cosciente del fatto che nessuno possa conoscere i reali effetti a lungo termine di questa, come di altre, vaccinazioni. Collegare cause ed effetti a distanza di anni è impresa difficile e comunque possibile solo a posteriori. Mi sono vaccinato volentieri e con gratitudine, non solo contro il virus (che pure sarebbe follia sottovalutare), ma anche contro gli effetti indotti della pandemia. Nella mia mente ingenua mi fidavo delle storielle che per mesi ci avevano raccontato e pensavo che il vaccino ci avrebbe liberato, oltre che dal virus, anche dai troppi virologi da teleschermo, dalla selva di regole, norme, divieti (tutti con relative pesanti sanzioni, come ormai inveterata abitudine italiana), da mascheramenti, tracciamenti e distanziamenti. Speravo che ci avrebbe restituito le sane abitudini di salutarci con strette di mano, baci e abbracci, di godere della vicinanza di amici e sconosciuti, di riunirci senza vincoli, prenotazioni, prescrizioni. Immaginavo quindi che saremmo tornati alla vera “normalità”, con una scuola come quella che avevo frequentato per decenni da entrambi i lati della cattedra, fucina non solo di conoscenze e competenze, ma soprattutto di rapporti sociali, di comportamenti rispettosi, di buona educazione. Una scuola che è palestra di comunicazione reciproca, negli anni cruciali della giovinezza in cui nascono le amicizie indelebili e si gettano le basi culturali, critiche e relazionali su cui appoggerà tutta l’esistenza. Tutte cose impossibili a distanza, ma anche pesantemente condizionate da turni, regole e mascherine.
Speravo di poter aprire il computer o leggere il giornale senza dovermi sorbire ogni volta dati, curve e tendenze della pandemia e le previsioni di scienziati-astrologhi in cerca di spiccioli di notorietà: insomma, il quotidiano “dare i numeri” a cui siamo ormai abituati. Avevo perfino nostalgia della buona vecchia politica, sostituita in questi anni da comitati tecnico-scientifici che nessuno ha votato e che, di fatto, hanno condizionato pesantemente la nostra vita quotidiana con le loro variegate e altalenanti decisioni. Quando ho denudato il braccio per la piccola puntura ero quindi contento e anche grato per aver fatto qualcosa di positivo non solo per la mia e altrui salute, ma soprattutto per mettere fine al perenne stato di emergenza. Speravo che, come in Danimarca, il paese in cui vive mia figlia, si potesse arrivare a eliminare ogni restrizione, ritornando a una vera “libertà” e alla totalità degli inalienabili diritti di ogni cittadino.
Non immaginavo, allora, che il governo avrebbe scelto per completare la campagna di copertura vaccinale, la strada della costrizione, invece che quella della convinzione e della libera adesione, e neppure tutta la storia (a mio parere senza sbocco) del green pass, per di più con controlli delegati a baristi, ristoratori, organizzatori di eventi, già pesantemente colpiti dalle restrizioni del periodo.
Sono personalmente favorevole ai vaccini, ma sono contrario a ogni “pensiero unico” e alla criminalizzazione o denigrazione del dissenso. Non si tratta solo della mia convinzione della maggiore efficacia della carota rispetto al bastone, ma di non cedere a compromessi sulle regole basilari di ogni democrazia, sistema per sua natura fragile che ha bisogno di continua manutenzione e vigilanza. Un compito non delegabile di ogni cittadino, soprattutto in momenti delicati come quelli che stiamo vivendo.
Trovo anche triste e pericolosa la polarizzazione estrema delle posizioni, un bianco e nero che esclude tutta la gamma dei grigi e soprattutto un contrapporsi che perde le caratteristiche del dialogo e del pacifico confronto per diventare una guerra ideologica, in cui ogni parte è talmente sicura della correttezza delle proprie idee da disprezzare chi la pensa diversamente, senza neppure prendersi il disturbo di ascoltarne le ragioni. Personalmente, ho amici e famigliari con idee diametralmente opposte sulla questione dei vaccini, ma resto in ottimi rapporti con tutti, pur conservando e dichiarando le mie idee. La base di ogni convivenza è il rispetto delle diversità, e le divergenti strategie sanitarie non possono fare eccezione a questa regola, neppure in tempi di “emergenza”.
Tutte queste amare considerazioni non tolgono nulla alla mia convinzione sull’utilità, in generale, dei vaccini e neppure alla gratitudine per tutti quanti, politici, sanitari, professionisti e volontari, hanno reso possibile ed efficiente l’enorme sforzo organizzativo della vaccinazione.
Non sono affatto un vaccinato pentito, sono solo un vaccinato deluso e preoccupato.
Pubblicato su La Guida del 16-09-021