Coltivare la Terra 7 La rivoluzione della patata

Nell’archivio comunale di Castelmagno è conservata copia del Questionario del 1837, un centinaio di domande molto dettagliate sulla vita e le attività economiche del comune dell’alta val Grana. Dalle risposte emerge un quadro completo e preciso di un paese in cui tutti gli abitanti erano dediti all’agricoltura e all’allevamento, con piccolissime aziende quasi tutte di proprietà (“ciascuno coltiva i suoi beni”) e ampi pascoli di uso comune. Sui minuscoli seminativi spesso terrazzati si coltivava segale e orzo e nulla pareva cambiato dai secoli precedenti, con l’unica grande eccezione dell’introduzione recente dei “pomi di terra volgarmente detti patate”.
Nel 1799 Vincenzo Virginio aveva dato alle stampe il suo “Trattato della coltivazione delle patate o sia pomi di terra volgarmente detti tartiffle”. Il termine “tartifles” o “trifules” è rimasto in alcuni dialetti occitani, assieme al più comune “bodi” e il francesismo “pomi di terra” ci ricorda che da noi il tubero è arrivato coi soldati di Napoleone. Il futuro imperatore era venuto dalle nostre parti con la scusa di esportare le idee di libertà, uguaglianza e fraternità della Rivoluzione, ma baionette e cannoni si adattano poco alla promozione di quei saggi principi. In compenso, la diffusione della coltivazione della patata a inizio ottocento è stata una vera e propria rivoluzione nelle campagne povere e nelle valli, e non a caso ha coinciso in molte zone con il massimo demografico assoluto.
La crescita della popolazione era allora condizionata dalle risorse alimentari e in diverse parti di tutto l’arco alpino l’introduzione del prezioso tubero ha permesso di raddoppiare quasi la popolazione nel giro di pochi decenni. Questo incremento straordinario era dovuto non solo al potere nutritivo della nuova coltura, ricca in carboidrati, ma al miglior sfruttamento dei pochi terreni utilizzabili come seminativo. In aree molto scoscese, come appunto Castelmagno, i pochi campi terrazzati erano usati da secoli per la semina autunnale della segale che, a lungo andare, produceva sempre meno. La rotazione con la patata permetteva una buona concimazione primaverile che ridava vita ai terreni troppo sfruttati e diminuiva i problemi di erbe infestanti, malattie fungine e parassiti, migliorando anche le rese dei cereali in successione.
La patata, come il mais, era arrivata in Europa dall’America del sud già nel 1500, ma la presenza di una sostanza tossica nei tuberi crudi o esposti alla luce e i soliti pregiudizi culturali ne avevano frenato la diffusione per tre secoli. Nella vicina Francia era stato Antoine Parmentier, farmacista convertitosi all’agronomia, a sponsorizzare con successo il tubero che lo aveva sfamato durante la prigionia di guerra in Prussia.
In Piemonte era arrivata negli ultimi anni del Settecento insieme ai soldati francesi, ma senza l’ostinazione di un avvocato cuneese testardo e filantropo, Vincenzo Virginio, non si sarebbe diffusa capillarmente in tempi brevi, tanto da cambiare le prospettive di vita dei montanari, fornendo un apporto calorico a quei tempi indispensabile per la sopravvivenza.
Il giovane Virginio doveva essere uno studente brillante e si era laureato in legge a soli vent’anni, seguendo le orme paterne. Una carriera ben avviata e una strada tracciata.
Ma la pratica professionale lo aveva portato spesso in campagna e aveva visto con i suoi occhi la devastante povertà, le ricorrenti carestie, la magrezza spaventosa di bambini denutriti, le malattie, le malformazioni. Morire di fame, allora, nelle nostre campagne non era un modo di dire: quasi tutto l’apporto calorico era dato da un paio di cereali, e quando qualcosa andava storto per siccità, grandine, inondazioni o malattie fungine era la carestia. Il prezzo di grano e segale subiva enormi fluttuazioni e a farne le spese erano, come sempre, i più poveri. A quei tempi, inoltre, l’economia era basata quasi esclusivamente sul settore primario, agricoltura e allevamento, e la grande frammentazione fondiaria, la pressione demografica e le questioni ereditarie favorivano liti e contenziosi. Avvocati senza troppi scrupoli approfittavano di questa situazione per arricchirsi. Il giovane Virginio, invece, appena trentenne, prese la difficile decisione di abbandonare la toga e di dedicarsi completamente alla missione di riempire la pancia ai contadini poveri, invece di svuotarne la tasche.
Un Don Chisciotte nostrano, capace di rinunciare agli agi di una professione remunerativa e ridursi in povertà, consumando anche tutte le ricchezze famigliari per inseguire il sogno di rimediare alle periodiche carestie che affliggevano regolarmente le campagne. Dopo aver lasciato la professione di legale si era dedicato interamente alla coltivazione della patata nella sua cascina del pinerolese e nell’autunno del 1803 erano arrivati sul mercato di Torino i primi tuberi, distribuiti gratuitamente assieme ai consigli per un corretto utilizzo e una giusta cottura. L’avvocato pentito aveva investito tutte le sue risorse nella sperimentazione agraria, ma era costretto a regalare i tuberi anche a chi avrebbe potuto pagarli “per la ripugnanza d’ognuno a farne compra come di un cibo non creduto a quei tempi degno dell’umana specie” (come si legge in un resoconto torinese del 1817).
Il finale della storia è scontato, con il povero Virginio ridotto in miseria, costretto prima a riciclarsi come insegnante accettando un posto nella lontana Zara e poi, tornato a Torino, a vivere con una modesta pensione, prima di finire i suoi anni solo e malato nell’ospizio per gli “incurabili”. Era il 1830: appena sette anni dopo la sua morte, nel lontano comune di Castelmagno si denunciava una produzione di 1500 rubbi di patate, pari a quasi 140 quintali, che assieme alle mille emine di segale e di orzo (180 quintali) e ai prodotti caseari garantiva la sopravvivenza di quasi 1300 abitanti.
Cuneo ha ricordato l’illustre concittadino con una piazza e l’intitolazione di una scuola, il suo biografo Gerbaldo ha saputo riassumere la sua storia umana dedicata “totalmente alla ricerca della pubblica felicità”, ma forse le parole di Matteo “avevo fame e mi avete dato da mangiare” sono il commento più adatto, a risarcimento di una vita “persa” per garantire l’altrui sopravvivenza.
Ma, anche senza disturbare le Sacre Scritture, spendere la propria esistenza inseguendo un sogno nobile e altruista, senza calcoli né mezze misure e con un pizzico di lucida follia, aiuta a dare un senso alla vita e anche a sopravvivere nella memoria riconoscente dei posteri. Di certo, se avesse continuato a barcamenarsi fra cause legali, contenziosi e parcelle, nessuno oggi si ricorderebbe più dell’avvocato Giovanni Vincenzo Virginio.

Pubblicato su La Guida del 22-4-021