Coltivare la Terra 3: collaborare con la natura

Coltivare la terra è attività secondo natura o contro natura?
La domanda può sembrare provocatoria, ma non è banale, e la risposta non è facile né scontata. Se vogliamo cavarcela con una semplice scappatoia potremmo rispondere: dipende da noi. Questo è senz’altro vero, ma non risolve il problema alla radice.
Per quanto possa sembrare strano, se pensiamo alla storia dell’uomo, l’agricoltura è stata un’invenzione molto recente. Dieci, dodicimila anni sono ben poca cosa, se paragonati al lungo periodo precedente, che si misura col metro delle centinaia di migliaia o dei milioni di anni, in cui gli uomini si limitavano all’attività di cacciatori-raccoglitori. L’intuizione di qualche nostro antenato che ha provato a gettare in terra qualche seme e accudire le piantine curandole fino al raccolto, ha permesso la creazione di gruppi sociali numerosi e ha fatto nascere la civiltà, il linguaggio, l’architettura, la storia, il diritto.
Raccogliere i prodotti di piante nate spontaneamente costringeva al nomadismo e richiedeva un territorio molto vasto per garantire la sopravvivenza di piccoli gruppi famigliari. La coltivazione di cereali e legumi ha permesso la formazione di tribù numerose, costretto alla cura e alla difesa del territorio, creato le basi per la nascita delle civiltà. Ma ha anche forzato la natura: migliaia di piante uguali in spazi ristretti significa fare un favore ai parassiti specifici, facilitare l’insorgere di patologie, impoverire il terreno. In questo senso, l’agricoltura è sempre un processo che “forza” la natura, andando oltre quelli che sarebbero i normali equilibri biologici. Dobbiamo ammetterlo e rendercene conto, ma possiamo almeno fare tutto il possibile per collaborare con la natura invece di contrastarla.
Questo atteggiamento richiede studio e comprensione delle mille materie che ci aiutano a capire i processi vitali dei vegetali coltivati, in modo da far sì che il nostro lavoro avvenga nello stesso senso di quello della natura e non in direzione contraria. La cosa è della massima importanza in questo terzo millennio, in cui la forza della tecnologia, della chimica, dell’industria, della ricerca genetica rende possibili pratiche disastrose e innaturali, un tempo impensabili. Le rese crescenti dell’agricoltura industriale ci danno l’illusione di essere la prima generazione al riparo da carestie e fame e da decenni stiamo cementificando e sprecando migliaia di ettari di terreno fertile, una colpevole follia che pagheranno le future generazioni. La potenza della tecnica e i progressi della conoscenza moltiplicano in maniera enorme sia le possibilità di far bene che quelle di far male e mai come ai giorni nostri il futuro della terra è nelle nostre mani e passa anche attraverso un’agricoltura che lavori con e non contro la natura.
Uno dei tanti problemi che ha dovuto affrontare da sempre l’agricoltura è il mantenimento della fertilità del suolo. Le soluzioni attuate dai nostri progenitori sono stata la simbiosi fra coltivazione dei campi e allevamento e le rotazioni, cioè l’alternanza sullo stesso terreno di colture con esigenze e caratteristiche diverse. Già nel Medio Evo i monaci benedettini che dirigevano le grandi abbazie avevano intuito che una particolare famiglia di piante, le leguminose, erano capaci di restituire fertilità ai terreni troppo sfruttati dai cereali. Ora noi sappiamo che sulle radici di queste piante vivono batteri simbiontici capaci di fissare l’azoto atmosferico, rendendo disponibile questo prezioso elemento anche alle colture seguenti.
Erba medica, trifoglio, lupinella seminati dopo colture esigenti in azoto come il frumento o l’orzo ridavano vita e forza al terreno e permettevano di evitare la tecnica del “riposo”, usata in precedenza. Un modo perfettamente naturale per concimare.
Fra le leguminose abbiamo anche molte piante che possiamo ospitare nel nostro orto. In questi mesi di inizio primavera è il momento di piselli, taccole, lenticchie e fave, poi, quando le temperature minime supereranno i 10 gradi sarà la volta dei fagioli e dei fagiolini. Anche nel ristretto spazio dell’orto famigliare dobbiamo stare attenti a fare le giuste rotazioni, evitando di rimettere nelle stesse aiuole ortaggi simili o identici in anni successivi e alternando piante più o meno voraci. I piselli, che possiamo seminare già coi primi calori, possono utilmente seguire e precedere una coltura esigente. Le varietà più produttive sono rampicanti o a mezza rama e richiedono di agganciarsi a un sostegno. I lavori di potatura del frutteto ci possono fornire il materiale adatto allo scopo, senza ricorrere alla plastica delle apposite reti.
La semina precoce di varietà a ciclo non troppo lungo permette di sfuggire alle prime siccità estive, che penalizzano la produzione dei baccelli e consente di sgomberare il prezioso terreno dell’orto famigliare in tempo per una seconda coltura. Cavoli, cavolfiori e finocchi approfittano bene del terreno arricchito di azoto lasciato dalle leguminose.
Negli archivi non ho mai trovato cenni alla coltura del pisello nei secoli scorsi, ma si parla spesso, genericamente, di legumi. Molto citati sono invece i ceci e, a volte, le fave. In alta valle Stura era coltivata la lenticchia, non solo per autoconsumo ma anche per la vendita. Una delle tante colture del recente passato che sarebbe bello riproporre e tornare a coltivare.

Pubblicato su La Guida del 25-3-021