Parlare di parole 3
La lingua è cosa viva ed è specchio fedele del tipo di società che rappresenta.
Le civiltà contadine e montanare del passato usavano parole che si sono perse col venir meno delle esigenze di quel tempo ormai lontano, delle abitudini e del modo di vivere di allora. Non si tratta solo di termini tecnici legati a lavorazioni o attrezzature specifiche ora in disuso, come le brustie per la canapa, le cavalie per battere i cereali o il van per pulirli, ma anche di molte parole del vivere quotidiano che si stanno perdendo e che le nuove generazioni faticano a capire.
Visto che sto scrivendo vicino alla stufa, mi viene in mente che ho appena messo a bruciare un pezzo di legna “entancanì”, aggettivo un tempo comune per indicare combustibile in cattivo stato di conservazione e di poca resa calorica. Non si tratta di legna marcia, ma di essenze dolci, come il nocciolo, il salice o anche il ciliegio, stagionate troppo a lungo, che hanno perso le loro caratteristiche strutturali e scaldano poco, facendo pure molto fumo.
Quello che il nostro piemontese casalingo diceva con un solo aggettivo che tutti capivano immediatamente, richiede in italiano una lunga e approssimativa spiegazione. Si tratta di un fenomeno del tutto normale: ogni società e ogni epoca crea le parole che servono in quel momento e condensa in un unico termine concetti che in altre circostanze ed epoche richiederebbero frasi complesse e definizioni incerte. Un’anziana signora di Valloriate mi riferiva le parole che usava da giovane per indicare i vari tipi di castagne cotte: le toutua erano quelle bollite, le baiana erano quelle secche cotte nel latte e mangiate col brodo, le bourtua, erano fatte cuocere da secche e poi scolate, le mourelle, erano quelle raggrinzite che non si spelavano seccando (che oggi si buttano via e allora si usavano).
È normale che in tempi e luoghi in cui le castagne erano la principale fonte di alimentazione invernale si fossero create parole specifiche, ed è altrettanto normale che il loro uso si sia perso ai nostri giorni. In fondo, creare parole adatte alle esigenze correnti è una questione di economia e permette di intendersi con il minimo sforzo.
Questo ci fa anche capire che ogni lingua è legata a un luogo, a un tempo e a un modo di vivere e che ogni tentativo di traduzione è sempre approssimativo, difficile e incerto (tradurre resta però esercizio indispensabile per capire e usare anche la propria lingua).
Ogni lingua è fissata dall’uso ed è in continuo cambiamento, perché di continuo cambia la realtà che è rappresentata dalle parole. Non deve stupirci questa evoluzione ed è inutile cercare di opporsi in nome di una presunta purezza o del rimpianto dei bei tempi andati. Se le parole sono (anche) i cartellini che descrivono le cose e le idee, è evidente che cambiando la merce esposta dovremo cambiare i cartellini o almeno adattarli alle novità. Ed è logico che nell’era dell’informatica e della tecnica dovremo usare termini che prima non c’erano, anche assimilandoli o adottandoli da lingue straniere. Molte parole inglesi non hanno l’equivalente esatto in italiano, proprio come capita per molte parole piemontesi. In entrambi i casi, credo sia giustificato usare l’originale.
Le parole cambiano, le lingue nascono, si evolvono e possono anche morire, almeno in apparenza. Ma non spariscono mai del tutto, diventano semplicemente l’humus su cui si innestano nuovi modi di esprimersi.
Come la materia organica nel terreno, che si disgrega per poi ricostituirsi dando vita a ortaggi e verdure, così le lingue “morte” lasciano pezzettini di parole (prefissi, suffissi, desinenze) che ritroviamo nei secoli e nei millenni successivi. Il mio paese, Cervasca, ha nel suo nome il finale in “asc” che ci arriva dai Liguri, popolazione preromanica di cui non sappiamo molto (non è neppure sicura l’appartenenza al ceppo indoeuropeo). Il suffisso indica un centro abitato ed è diffuso sia nelle nostre zone che nella vicina Francia (Manosque, Venasque).
Dell’antico popolo gallico non restano molte tracce o memorie, ma è rimasto un pezzo di parola, che è più duratura della pietra, più resistente di un fabbricato, più significativa di un reperto archeologico. Trovo davvero straordinaria questa permanenza di lingue di un lontano passato nel nostro quotidiano, una sorta di legame che non si spezza, di eredità di cui non siamo coscienti, ma che usiamo ogni giorno.
Le parole nascono su substrati precedenti e a volte possono stratificarsi in modo curioso. Ricordo che oltre quarant’anni fa Beppe Rosso mi spiegava che il monte Ventabren, che si trova in valle Stura poco oltre Vinadio (ma nomi simili ci sono anche nelle valli francesi) derivava da una radice ligure “bren” che significa monte e da un’altra celtica, “ven” che ha l’identico significato. Gli invasori celti avevano aggiunto la parola “monte” davanti a quella preesistente, che credevano un nome proprio, e noi ora facciamo lo stesso, col risultato di chiamare il Ventabren “monte-monte-monte”, in termini matematici monte al cubo. Stessa cosa per il lago del Laus (che significa lago), ma qui arriviamo solo alla seconda potenza.
A parte queste curiosità che possono farci sorridere, resta il fatto che ogni parola è piantata nella storia o addirittura nella preistoria. Questi legami sono evidenti soprattutto nei nomi dei luoghi, i toponimi. Noi oggi chiamiamo col loro nome i paesi, le frazioni, al massimo le borgate o le zone di una certa importanza, ma un tempo ogni singolo appezzamento, anche piccolissimo, aveva una sua denominazione. Quando, negli anni 80, ho comprato case e terreni in valle Stura (poche giornate divise in un centinaio di particelle catastali), ogni singola “pessa” aveva un nome proprio.
Erano già tempi di trattori e motofalciatrici, e non sono mai riuscito a imparare tutti quei toponimi. Lavorando con dagn e masuirot le generazioni che mi hanno preceduto su quelle rive avevano tutto il tempo per memorizzare quel lungo elenco di parole occitane e per chiamare per nome ogni fazzoletto di terra.
Proprio come facevano con le mucche, le pecore o le capre nella stalla.
(continua)
Pubblicato su La Guida del 4-2-021