La scienza, bene comune al servizio di tutti
Quando impariamo qualcosa (e imparare è un processo che dura tutta la vita e rallegra ogni momento dell’esistenza) contraiamo un debito e un obbligo: quello di dare ad altri quello che abbiamo ricevuto. Ogni conoscenza, infatti, ci arriva da qualcun altro, per travaso, come un fluido, ed è un capitale che dobbiamo far circolare e incrementare.
Proprio per questo, la scienza, e più in generale la conoscenza, è un bene comune, anzi, per certi aspetti il primo e più importante dei beni comuni. Nessuno può considerarsi “il padrone” di ciò che conosce.
In questi tempi di pandemia, con oltre un milione di morti nel mondo, dovrebbe essere chiaro a tutti quanto sia importante il problema della libera condivisione del sapere, già sottolineato in passato su questo giornale dagli articoli di Sergio Dalmasso. Sottrarre la scienza alla speculazione e arrivare il più in fretta possibile a trovare rimedi efficaci contro l’infezione diventa questione di vita o di morte, nel senso letterale e crudo dell’espressione.
La conoscenza, invece, per buona parte del mondo economico, è una merce che obbedisce alle regole del mercato: domanda e offerta, monopolio, massimizzazione del profitto. È sufficiente fermarsi un attimo a pensare a quanti interessi economici si celino dietro quell’essere mille volte più piccolo di una cellula che sta cambiando le nostre vite. La corsa al vaccino, la fornitura di farmaci, presidi medici, reagenti, sanificanti, lastre divisorie, banchi scolastici. Società per azioni e fondi di investimento sono in gara per arrivare primi a trovare un vaccino (la corsa all’oro del terzo millennio), e altre si sono gettate a pesce per sfruttare la gestione stessa dell’emergenza e della ripresa “in sicurezza”. Altre ancora, come Amazon e molte aziende del terziario avanzato, stanno approfittando dei cambiamenti di abitudini indotti dalle varie fasi di gestione dell’epidemia.
Questa emergenza globale dovrebbe essere l’occasione per ripensare completamente il settore della ricerca scientifica e per mettere regole che vadano oltre l’interesse privato.
Non si può lasciare la scienza in mano alla speculazione, non solo per evidenti motivi di salute pubblica, ma anche per un elementare problema di giustizia. La gran parte degli scienziati che in questo momento stanno affannandosi per cercare un rimedio alla pandemia, pur lavorando magari per società private, sono stati formati per tutto o quasi il percorso scolastico con soldi pubblici. In Italia lo Stato spende decine di migliaia di euro per portare uno studente capace e volenteroso dalla scuola materna all’università e poi fino al dottorato, facendone uno “scienziato”. Poi arriva una qualsiasi multinazionale e con quattro soldi lo assume, magari con i soliti contratti di perenne precarietà, e si gode i frutti di questo lungo lavoro formativo e di questo consistente investimento economico. Insomma, il pubblico spende e il privato incassa, pronto a rivendicare con brevetti e cause legali l’esclusiva di quanto scoperto.
È vero che le ricerche sono molto costose e che sono finanziate in parte da enti pubblici e in parte da società private, ed è altrettanto vero che chi investe in ricerca deve poter ripagare il capitale speso e anche avere giusti utili, ma non credo sia corretto, né moralmente né economicamente, impedire la libera circolazione del sapere e dei suoi frutti e permettere qualsiasi esclusività di quanto scoperto. Molte fra le più importanti riviste scientifiche sono controllate da un gruppo privato e per utilizzarne i contenuti le università pagano cifre importanti, dopo aver speso un sacco di soldi pubblici per formare gli stessi specialisti che hanno prodotto gli articoli. Anche i sistemi di accesso alle pubblicazioni e di valutazione delle ricerche (l’Impact Factor e altri, che sono diventati i parametri per ottenere finanziamenti e avere visibilità) sono oggetto di critiche motivate.
La libera circolazione della conoscenza è vitale in questi tempi di pandemia, ma è un qualcosa che va ben oltre l’emergenza e riguarda, giustizia e buon senso. È infatti passata da tempo l’epoca delle grandi scoperte, e come non si troveranno più nuovi continenti, così non si arriverà a risultati eclatanti in campo scientifico se non con un lungo e paziente lavoro collettivo fondato su tutte le conoscenze pregresse. Chi scopre qualcosa, aggiunge solo un ultimo piccolo tassello a quanto già si sapeva e basa comunque la sua scoperta sull’immenso patrimonio di conoscenza accumulato da tutti quelli che l’hanno preceduto. Non è quindi corretto che sia considerato “proprietario” del risultato raggiunto e che possa vantare un monopolio di sfruttamento economico di quanto scoperto. Non posso dire di aver costruito io il Duomo di Milano perché ho sostituito una tegola rotta e neppure posso vantare diritti d’autore su un romanzo perché gli ho aggiunto una postilla di tre righe. Eppure in campo biologico succede proprio questo, con la benedizione del diritto internazionale. Gli OGM sono organismi viventi, spesso sementi agricole, di proprietà esclusiva di ditte che hanno cambiato un pezzettino di DNA appropriandosi così di tutto il resto. Cambiando un solo mattone divento proprietario di tutto il palazzo: un’attività molto conveniente, non c’è da stupirsi che molte grandi multinazionali si siano buttate a capofitto nel settore sconvolgendo l’agricoltura mondiale. Forse sarebbe il caso di cambiare il diritto internazionale che rende possibili queste assurdità e impedire di brevettare un qualsiasi essere vivente: in fin dei conti, non è certo la Monsanto che ha creato il mais o la soia.
La divagazione in campo agricolo vuol solo essere un esempio di quanto sia ingiusto da ogni punto di vista, anche quello della semplice logica, considerare qualcuno “padrone” della conoscenza.
Visto che le crisi servono proprio per mettere “in crisi” modi di vivere, idee e convenzioni, sarebbe bello che questa epidemia servisse almeno a farci riflettere su quanto sia importante riprenderci la scienza, in modo che sia davvero un bene comune e un patrimonio di tutti e al servizio di tutti.
Pubblicato su La Guida dell’8 ottobre 020