Il ritorno del frumentìn

Ho letto con molto interesse l’articolo di Fabrizio Brignone sulla coltivazione del grano saraceno nelle nostre zone pubblicato sulla Guida della scorsa settimana. Girovagando in bicicletta nella pianura del caragliese avevo già notato alcuni appezzamenti di “frumentìn” con i caratteristici fiori bianchi, ma non immaginavo una ripresa in grande stile dell’antica coltivazione, con cento ettari, cioè duecentosessanta giornate interessate dall’accordo di filiera con un mulino della Valtellina specializzato nella lavorazione del cereale.
La buona notizia mi ha fatto molto piacere, perché il grano saraceno è una coltura davvero interessante, per un sacco di motivi: botanici, agronomici, storici e anche linguistici e antropologici.
Cominciamo dal nome italiano, grano saraceno, che contiene due false informazioni, sia nel sostantivo, grano (non è neppure lontano parente di quelle che chiamiamo graminacee), sia nell’attributo, saraceno, usato come sinonimo di straniero. La provenienza del nostro frumentìn è incerta, ma probabilmente arriva dalla Cina ed è giunto in Europa attraverso la Russia con l’invasione dei Mongoli del 1200. Da metà Quattrocento è documentata la sua coltivazione in Germania e Francia.
Già in tempi lontani c’era la tendenza ad accomunare tutti i forestieri con un’unica etichetta d’origine, e il termine saraceno o turco definiva qualsiasi cosa o persona arrivasse da un imprecisato oriente, o comunque da lontano (un po’ come adesso qualsiasi nordafricano è un “marocchino” e qualsiasi orientale un cinese). Stessa sorte toccherà poi al mais, che chiamiamo ancor oggi granoturco, anche se ci è arrivato con Colombo addirittura dall’America.
Più corretta la denominazione scientifica. Nei lontani tempi dei miei studi di Agraria si chiamava Poligonum fagopyrum, ora il nome ufficiale è Fagopyrum esculentum. Entrambe le denominazioni contengono informazioni questa volta non fuorvianti: la prima ci ricorda che appartiene alla famiglia botanica delle Poligonacee, perché ha gli acheni con le caratteristiche facce piane, la seconda ci informa che gli stessi semi hanno forma simile a quelli del faggio e che sono commestibili.
Accettabile è invece la denominazione di “cereale”, ma anche qui ci troviamo davanti a una particolarità: il nostro frumentìn è infatti uno dei pochissimi cereali non appartenenti alla famiglia delle graminacee. E la qualifica di “cereale” non è cosa da poco: indica un vegetale con semi molto disidratati e quindi ad alto contenuto nutritivo, conservabili e trasportabili. La storia dell’umanità è la storia di questi straordinari alimenti, capaci di garantire la sopravvivenza e di permettere quindi l’aggregazione di nuclei sociali numerosi, prima in villaggi e poi in città e nazioni. Si può affermare che ogni civiltà nasca e si sviluppi grazie a un particolare cereale: il grano per gli Egizi, il farro per i Romani, l’avena e la segale in nord Europa, il mais per i popoli dell’America Centrale e Meridionale, il riso in estremo oriente.
L’umile “frumentìn” è considerato un cereale “minore”, ma questo diminutivo mette in luce anche il punto di forza che ha reso importante nei secoli passati questa coltura: la brevità del suo ciclo, che permette non solo semine primaverili, ma addirittura estive, in secondo raccolto. Un formidabile vantaggio sia in montagna, dove la brevità della bella stagione si concilia bene col ciclo corto del cereale, sia in pianura, dove può seguire l’orzo o altre colture principali.
Una caratteristica che, insieme all’adattabilità a climi e terreni anche difficili e alla rusticità spiega la sua grande diffusione in passato nelle nostre zone. Il frumentìn era prezioso soprattutto nelle annate “storte”, quando piogge persistenti o nevicate precoci impedivano le semine autunnali di grano e segale o ne limitavano le rese, rovinando anche i raccolti di castagne e patate. La “polenta nera” diventava allora l’unico antidoto alla fame e alla denutrizione, tanto che il suo consumo come principale alimento poteva diventare eccessivo e portare a un’intossicazione detta fagopirismo.
Come mi ricordava, in una chiacchierata di qualche anno fa Esterina Parola di Valloriate, il frumentìn era coltivato nei terreni più poveri ma freschi, si batteva col correggiato (les cavalia), poi si portava a macinare per farne polenta. La crusca (bren), era considerata la migliore imbottitura per i cuscini che restavano sempre morbidi ed elastici e non assorbivano umidità neppure se usati nelle stalle.
In molti documenti d’archivio dei nostri paesi troviamo riferimenti precisi alle produzioni di grano saraceno, in particolare a partire dalla metà del Settecento. A Cervasca, ad esempio, è conservato in archivio un Verbale di consegna dei cereali del 1746 in cui si denuncia una produzione di 2530 emine di “formentone”, pari a 350 quintali. Il grano saraceno era allora il più importante fra i cosiddetti “marsaschi”, cioè i cereali a semina primaverile, seguito dal miglio con 1805 emine. Poco coltivata era invece la meliga, molto diversa dall’attuale mais, di cui si dichiaravano appena 420 emine.
Come capitava anche in quei tempi lontani, le denunce delle produzioni, su cui si basava la tassazione fondiaria, erano inferiori alla realtà, e nella Relazione del Brandizzo del 1753 l’Intendente calcolava che a Cervasca si coltivassero mediamente 359 giornate di “formentino”, che “in ragione di emine 16 per giornata danno un prodotto di 5744 emine”, oltre ottocento quintali (un po’ più del doppio di quanto risulta dalla Consegna di pochi anni prima).
Oltre un secolo dopo, nella Statistica dei prodotti del 1869 di Demonte si dichiarano 169 ettolitri, cioè circa 100 quintali di grano saraceno, mentre nel 1872 risultano coltivate a fromentino nel comune della valle Stura circa 28 giornate. Il calo di produzione si fa drastico nel Novecento in tutto l’arco alpino e nel dopoguerra la coltura è praticamente scomparsa, con l’eccezione di alcune nicchie nelle valli lombarde e trentine e di pochi casi sparsi nelle nostre zone.
Come capita spesso, il tempo rimescola le carte e quello che era considerato il grano dei poveri o un prodotto di ripiego nelle annate difficili, con cui si faceva una polenta di colore scuro (la “polenta bigia” ricordata dal Manzoni) è ora pienamente rivalutato per le buone caratteristiche nutrizionali (assenza di glutine, frazione proteica equilibrata, elevato contenuto di fibra solubile e di antiossidanti). Le tristi “minestre di marsaschi” annotate dal Brandizzo come dieta unica dei molti poveri montanari che non potevano permettersi il lusso del pane, neppure quello di “segla o barbariato”, si sono trasformate in produzioni di qualità molto richieste e ben pagate. Ne guadagna anche il paesaggio agrario, con il bianco dei fiori a rallegrare la vista e interrompere la monotonia di infiniti campi di mais zootecnico. Si rallegrano pure le api, che raccolgono un nettare abbondante in una stagione in cui sono finite le grandi fioriture.
Il brutto anatroccolo è diventato un bel cigno, una favola a lieto fine che ci consola in questi tempi incerti e ci fa ben sperare per il ritorno a un’agricoltura attenta ai valori del territorio e al benessere di tutti. E magari anche consapevole della propria storia e capace di farci ritrovare, anche nel cibo che mettiamo nel piatto, la nostra cultura e le nostre tradizioni. Insomma, un’agricoltura che sia anche un po’ “agri-cultura”.

Pubblicato su La Guida del 10-9-020