Il mentre e il dopo
Mentre stiamo tutti facendo quotidiani esercizi per mantenere serena la mente e attivo il fisico nonostante il crescendo di divieti, controlli e relative sanzioni, e mentre stiamo tutti sognando un dopo che pare allontanarsi sempre più come un miraggio e che ci riporti la pienezza e la bellezza delle relazioni reali di quel prima che ora ci pare un lontano paradiso, vorrei soffermarmi proprio su queste due paroline apparentemente secondarie: mentre e dopo. Avverbi o congiunzioni, comunque parti invariabili del discorso, senza neppure la dignità di declinazioni o coniugazioni. Messe lì a far da collegamento fra verbi e sostantivi, fra materia e azione, in una funzione che può sembrare di scarsa importanza.
Ma proprio questo tempo sospeso, pesante e prolungato che ci tocca vivere, può farci capire quanto ci sia di profondo e di vitale in queste due paroline e quanto sia fondamentale vivere pienamente il “mentre” senza farsi troppo fregare dall’attesa del “dopo”.
Non vorrei con questo essere frainteso: il dopo è assolutamente importante e dobbiamo pretendere che sia meglio del prima e che ci sia appena possibile restituita la pienezza dei diritti costituzionali di libertà di movimento e di autodeterminazione e la possibilità di relazionarci con gli altri senza schermi, distanze o controlli.
Ma sovente il proiettarci in un dopo (o in un prima) ci priva della capacità di assaporare il mentre, cioè il presente, unica dimensione che ci appartiene pienamente.
Mi capita spesso, mentre sto lavorando, di pensare al lavoro finito e di affrettarmi per arrivare presto alla conclusione e non capisco che in questo modo mi perdo forse la parte più importante e creativa, la soddisfazione del fare (che è altra cosa della soddisfazione del “fatto”, cioè del lavoro concluso). Quando ristrutturiamo una casa, pensiamo a come sarà dopo, e non ci godiamo quel momento irripetibile in cui tutto è ancora progetto e possibilità. Lavoriamo nell’impazienza del risultato, con la fretta di finire e non ci rendiamo conto di quanto sia bello e importante quello che stiamo facendo. Facendo, fatto: il participio presente, cioè il mentre, contiene la potenzialità, la possibilità, la scelta, il participio passato è già un dopo, in cui dovremo rassegnarci ad accettare l’immobilità della cosa compiuta.
Quando i bambini sono piccoli abbiamo fretta che diventino grandi e solo quando avremo nipoti ci renderemo conto di cosa ci siamo persi a farci distrarre da altro nei giorni magici della loro infanzia. Negli anni della scuola non vediamo l’ora che finisca il tempo dell’apprendistato teorico, delle interrogazioni a sorpresa e delle verifiche scritte per poterci finalmente buttare nella vita vera e cercare un lavoro; poi conteremo i giorni che ci mancano alla pensione.
Chi ha esperienza di cammino sa che la meta è importante, perché senza una meta non si va da nessuna parte, ma sa anche che la sua unica funzione è quella di farci vivere intensamente ogni momento del percorso e di darci stimoli e forza per ripartire ogni mattina. Una volta arrivati non ci resterà che tornare, una volta giunti in cima alla montagna possiamo solo iniziare la discesa.
Anche in questa strana e pesante situazione che si è venuta a creare, in parte per colpa del virus e in parte per una gestione dell’emergenza confusa e che ha appesantito con norme di dubbia utilità la vita di tutti, non dobbiamo fare lo sbaglio di proiettarci solo nel dopo, rinunciando al mentre. Anche perché quel che sarà dopo è funzione di quello che stiamo facendo ora, sia dal punto di vista personale che da quello sociale.
La Liberazione, di cui in questi giorni ricorre il più strano degli anniversari, non è avvenuta per caso, ma perché negli anni del fascismo e della guerra, mentre violenza e repressione dilagavano, qualcuno stava pazientemente e con rischio personale costruendo quel dopo che tutti ci siamo potuti godere per settantacinque anni.
Anche il dopo virus che stiamo tutti aspettando dipende molto dal mentre che stiamo vivendo: non dobbiamo rinunciare, pur nella necessario rispetto di regole condivise, a pensare con la nostra testa, a dire le nostre opinioni, a vigilare sulla salute della nostra fragile democrazia. Proprio le situazioni di emergenza sono quelle in cui possono farsi strada pericolose derive autoritarie: si accettano norme “provvisorie” altrimenti impensabili e si finisce per abituarsi e trovarle normali, rinunciando senza neppure reagire a una bella fetta di quella libertà per cui i nostri padri e nonni hanno lottato e patito.
Il senso di pericolo è una molla psicologica che ci spinge ad accettare senza discussioni un capo che ci dia ordini. Si tratta di un meccanismo biologico di protezione a volte utile, che ci permette reazioni veloci, ma che può trasformarsi in una trappola se non guidato dalla ragione e dallo spirito critico. Il rischio, quando si affrontano nemici così pericolosi e subdoli come questo nuovo virus, è quello che si cada nel pensiero unico, si resti frastornati e ci si rifugi in un falso senso di unanimità. Che è altra cosa del sentimento di unità che deve guidarci, quel sentirci tutti sulla stessa barca che ci spinge magari a suggerire al capitano di non ostinarsi a procedere a tutta forza nella nebbia col rischio di scontrarsi con un iceberg.
Il paragone con la tragedia del Titanic non è casuale: il 14 aprile era l’anniversario, 108 anni. Anche oggi navighiamo nella nebbia, nessuno può sapere con certezza quale sia la strategia più efficace per contrastare l’infezione e nello stesso tempo minimizzare i danni personali, sociali, psicologici, economici. Possiamo solo sperare che chi ha la responsabilità di prendere decisioni sia meno presuntuoso e più saggio del capitano dello sfortunato transatlantico e si renda conto di quanto possa diventare esplosiva l’attuale situazione, una molla che continua a essere compressa e che prima o poi dovrà restituire l’energia accumulata.
Altrimenti il nostro “dopo” potrà essere funestato da un’epidemia di rabbia, dannosa per il tessuto sociale e altrettanto contagiosa e subdola di questo parassita.
Rabbia che, manco a dirlo, prende il nome proprio da una malattia portata da un virus, trasmesso in genere dal morso di animali e ancor più cattivo di quello che ci sta rovinando la primavera.
Maledetti virus! Pare proprio che di questi tempi non si riesca a fare nessun discorso senza ritrovarsi a parlare di questi esseri ultramicroscopici che stanno occupando nelle nostre menti e nelle nostre parole uno spazio inversamente proporzionale alla loro grandezza.
Pubblicato su La Guida del 23-4-020