Spiccioli di economia 3: Una “scienza” giovane
Per capire l’economia, come per quasi ogni altra umana disciplina, possiamo farci aiutare dalla storia. Una veloce panoramica del pensiero economico ci può dare una mano a comprendere meglio la materia che vogliamo affrontare.
Ma, a differenza di tante altre discipline, l’economia non ha radici nel lontano passato, è una “scienza” giovane. Egiziani, greci, romani ci hanno regalato la geometria, il teatro, la filosofia, l’astronomia, il diritto, ma non si sono mai interessati seriamente di economia. Negli autori latini ci sono consigli pratici di gestione di aziende agricole, regole per cercare di far rendere le proprie attività imprenditoriali, ma niente di più.
I primi pensieri economici, ancora grezzi e poco sistematici risalgono a dopo la “scoperta” dell’America. Il saccheggio del Nuovo Continente (con relativo genocidio dei popoli nativi) aveva portato in Europa ingenti masse di metalli preziosi e favorito i commerci. Nasce in quei secoli il mercantilismo, una primitiva teoria economica elaborata non da inesistenti economisti, ma dai più importanti politici di allora. Gente come Colbert, potente ministro di Luigi XIV, il Re Sole, in Francia o Cromwell importante condottiero e uomo di stato inglese. I mercantilisti ritenevano che la ricchezza di uno stato fosse data dal possesso di oro e argento; per riempire i forzieri pubblici occorreva quindi esportare molto e importare poco. Le importazioni erano scoraggiate con apposite leggi o con pesanti dazi doganali. È quello che oggi chiamiamo “protezionismo”. Un sistema di chiusura che ha condizionato per secoli i rapporti fra gli stati, creando ritorsioni e contese.
In contrapposizione al mercantilismo nasceva in quel periodo la teoria fisiocratica, per opera di diversi intellettuali soprattutto francesi. La ricchezza, secondo loro, non stava nel commercio e neppure nel denaro, ma unicamente nella terra e nella natura.
Solo l’agricoltura è capace di creare davvero nuova ricchezza, moltiplicando con raccolti abbondanti la quantità di semi affidata al terreno. Pianto un chilo di patate, ne raccolgo dieci, la natura ne ha creati nove. Il commercio, al contrario, non crea nulla, semplicemente lo sposta.
Due modi di pensare diametralmente opposti hanno tenuto a battesimo la futura “scienza” economica, ancora in fasce. Lo stesso capiterà nei secoli successivi, quando la giovinetta prenderà forma e sostanza, a conferma di quanto si diceva all’inizio di questa chiacchierata sulla dimensione relativa di questa branca del sapere umano.
Mercantilismo e fisiocrazia erano però teorie molto semplici, poco strutturate. Il padre della moderna scienza economica è considerato Adam Smith, primo rappresentante della scuola che chiamiamo “classica” o liberista. Volendo riassumere in poche parole il suo complesso e articolato pensiero, potremmo dire che Smith riteneva che l’uomo fosse spinto dal desiderio egoistico di benessere personale, ma che nel cercare il proprio interesse facesse, senza volerlo esplicitamente, il bene della collettività. L’imprenditore mira esclusivamente al proprio profitto, ma così facendo, dà lavoro e crea ricchezza anche per gli altri.
Principio chiave del liberismo è che il mercato è capace di autoregolarsi (la famosa “mano invisibile”) arrivando al migliore equilibrio possibile e che, di conseguenza, nessuno deve intromettersi nei delicati meccanismi di regolazione. Se, ad esempio, il prezzo del grano quest’anno è basso e non copre neppure il costo di produzione, nella prossima annata meno contadini, scottati dalla perdita, lo semineranno. Ci sarà così meno grano in commercio e, dato che la gente continuerà a mangiare pane, il prezzo tenderà a salire. Visto che il mercato, lasciato da solo, è così bravo ad autoregolarsi, lo stato non deve assolutamente intervenire nelle questioni economiche.
Smith era un inglese, vissuto nel Settecento, in piena rivoluzione industriale. La nascente meccanizzazione aveva gettato milioni di persone nella povertà più assoluta e nel degrado sociale. Forse la sua idea di una economia come scienza con sue proprie leggi indiscutibili e non criticabili sul piano morale (nessuno si sognerebbe di dire che è ingiusta una legge chimica o condannerebbe come immorale il teorema di Pitagora) era anche un inconscio tentativo di sgravarsi la coscienza davanti alla miseria diffusa. Lui apparteneva al ceto benestante, non aveva lavorato da bambino in miniera, non respirava la polvere di carbone e lo smog assassino dei quartieri poveri di Londra, ma in fondo (sembrano volerci dire le sue teorie) non era colpa sua né di nessun altro. Era per via delle rigorose e asettiche leggi che governavano il mondo della produzione e degli affari.
Forse già allora, le teorie economiche non le inventavano i poveracci e l’economia era la “scienza” di chi aveva la pancia piena e la ferma intenzione di continuare a riempirsela. Una bella costruzione mentale che serviva anche a rassicurare le coscienze per poter continuare a dormire bene fra lenzuola di seta mentre i disperati che affollavano le periferie industriali delle città (Londra era allora la città più popolosa del mondo) soffocavano nello smog.
Pubblicato su La Guida del 14-12-017