Regole da riformatorio

Mille anni fa, quando trascorrevo sovente le mie serate soffiando in svariati strumenti a fiato – col risultato di contribuire all’innalzarsi del livello di inquinamento sonoro dell’etere – mi è capitato di passare un paio di giorni in un riformatorio (parola ormai desueta che indicava il carcere minorile).
Detta così, si potrebbe pensare che suonavo talmente male da offendere il comune senso del pudore e che mi avevano imprigionato per impedirmi di emettere ulteriori note stridule. In effetti, ero un suonatore un po’ mitun-mitena (bella espressione piemontese che potremmo tradurre approssimativamente con mediocre), ma i miei compagni di musica erano talmente bravi da rendere gradevole l’insieme e così ci avevano invitati ad Annecy, in Savoia, per animare un corso di danze occitane che si teneva, appunto, in quello strano ambiente.
Ero vagamente curioso, e anche un po’ preoccupato, nel varcare la porta di ingresso. Forse appartengo alla razza degli eterni insicuri ossessionati da oscuri sensi di colpa che temono inconsciamente l’impatto con le strutture repressive del potere e mi aspettavo che le sbarre si sarebbero rinchiuse per sempre alle mie spalle, relegandomi nel triste universo dei reclusi. All’arrivo, con grande nostra sorpresa, ci attendeva invece una bella casa accogliente, senza muri, inferriate, cancelli e recinzioni. Una specie di campus universitario, allegro e informale, popolato da ragazzi e ragazze cordiali ed educati. All’ora di cena avevamo condiviso il pasto in un salone degno di un grande albergo, divisi in piccole tavolate e serviti dagli stessi ragazzi nella veste di impeccabili camerieri. Erano state giornate intense e piacevoli, passate fra musica, danze e parole. Il mio stupore era cresciuto quando il responsabile aveva risposto alle nostre domande, spiegandoci che gli ospiti della struttura (proprio quei ragazzi puliti e sorridenti che ci servivano in guanti bianchi) erano persone che avevano alle spalle realtà drammatiche e gesti gravissimi: omicidi, rapine, violenze. In quel riformatorio, ci aveva detto con un sorriso, arrivavano gli irrecuperabili, quelli che i carceri minorili tradizionali non erano riusciti a riportare a standard accettabili di comportamento.
“Ma come fate?”, avevo chiesto al responsabile. “E’ la forza del gruppo”, aveva risposto. Avevano lavorato molto per creare un piccolo nucleo positivo e unito di ragazzi e ragazze e introducevano con cautela un nuovo elemento per volta, in modo che fosse “obbligato” ad adeguarsi al buon comportamento degli altri.
Gli altri due elementi della ricetta erano regole chiare, rigorose e condivise e la dedizione totale degli educatori. Ora sono convinto che ci fosse un quarto ingrediente fondamentale: il carisma del responsabile e creatore della struttura, uno di quei rari uomini o donne in grado di catalizzare le forze positive del prossimo e far succedere i miracoli.  Persone eccezionali, santi fuori dal calendario che aiutano noi comuni mortali a non abbandonare la speranza che il regno dei cieli sia davvero vicino, come scriveva Marco. Ma i miracoli, per definizione, succedono di rado e quindi vorrei soffermarmi, dopo questa eterna introduzione, sui primi due lati del triangolo: il rispetto delle regole e la forza del gruppo.
Oltre otto lustri di lavoro nella scuola mi hanno insegnato l’importanza vitale di questi due aspetti per qualsiasi livello di aggregazione umana: una classe, un paese, una regione, uno stato. Due fondamenta robuste su cui basare tutto il resto, due muri portanti e interdipendenti che danno forma e forza all’edificio. E mi hanno anche convinto di quanto siano precarie queste basi, di come richiedano costante manutenzione e di quanto sia difficile, una volta lasciata degenerare la situazione, ritornare indietro.
Abbiamo avuto la grande fortuna – ma fortuna non è la parola giusta – di vivere in tempi di libertà di coscienza, di pace, di democrazia, di benessere economico. Come capita a noi umani dai tempi dei lebbrosi guariti, non siamo capaci di riconoscenza, presi da altre rivendicazioni e pretese e dalle mille incombenze spicciole di esistenze spesso stressanti. È normale… Quello che è più grave è che non siamo neppure capaci di vedere e valutare il tesoro e di difenderlo, di attuare strategie per conservarlo.
Le cose buone e belle, tutte, richiedono manutenzione e attenzione, degenerano e si guastano con facilità. Viviamo immersi in una bolla di sapone nella beata incoscienza dell’imminente scoppio, con la serena sicurezza di chi non ha mai provato sulla sua pelle condizioni diverse da quelle, tutto sommato tranquille e ovattate, che abbiamo fin qui vissuto.
Da questo atteggiamento nasce una sorta di buonismo ebete, che non ha nulla da spartire con la bontà. I buoni veri sono merce rara, di buonisti è pieno il mondo e fanno disastri speculari, uguali e contrari ai cattivi di professione e vocazione. La massima concentrazione la si trova proprio fra noi figli del miracolo economico, di epoche di libertà conquistate da altri e subito date per scontate, di diritti, garanzie, pensioni, assistenza, retribuzioni, insomma vita facile – per quello che può essere facile una vita, visto che troviamo sempre e comunque il modo di rovinarci l’esistenza: più è facile e meno ce la godiamo in serenità e riconoscenza-.
Abbiamo perso la memoria di quanto sia eccezionale e meraviglioso poter godere di libertà e di benessere, poter parlare e sparlare, baciarci e abbracciarci per strada, dare del tu a Dio e chiamarlo col nome che vogliamo, andare a nanna con la pancia piena, non avere i figli al fronte, maledire il governo ad alta voce, scherzare coi santi, coi fanti e pure con un eventuale Profeta, vestirsi d’inverno e svestirsi d’estate, vedere scampoli di pelle nuda rallegrarsi del vento e del sole, guardare con un po’ d’invidia e tanta tenerezza i ragazzini al primo amore abbracciarsi sulle panchine dimentichi del mondo circostante. Tutte libertà e possibilità per cui, parafrasando l’evangelista, altri hanno faticato prima di noi, arando e seminando, per garantirci un raccolto che spesso non ci curiamo neppure di salvaguardare.
Siamo anche vittime dell’effetto pendolo, cioè del fatto che la storia si muove sempre con andamento alternato, da un eccesso a quello opposto. A un’epoca di troppo rigore     segue un periodo di rilassamento, a troppa chiusura succede un’eccessiva apertura.
Leggiamo don Milani e concordiamo con lui che l’obbedienza non è più una virtù, ma non ricordiamo il suo estremo rigore di educatore, che oggi gli varrebbe contestazioni ed esclusioni uguali e contrarie a quelle patite ai suoi giorni. Primo Levi scriveva che “l’eclisse del principio di autorità è da contarsi fra i pochi elementi positivi del nostro tempo”, e la frase mi era piaciuta talmente da conservarne esatta memoria, ma si riferiva allo scorso millennio e non so se oggi, se fosse ancor vivo, la sottoscriverebbe ancora.
L’importanza delle regole condivise è un argomento di estrema attualità e importanza.
Sul tema, il discorso sarebbe infinito e rischierebbe di dilatare ulteriormente questa già troppo lunga sbrodolata di parole. Si potrebbe accennare alla necessità di mettere insieme due termini apparentemente antitetici, come rigore e flessibilità, all’esigenza di semplicità (le regole devono essere poche e chiare) o alla contraddizione insita in questa società iper-regolata fino alla pura demenzialità nelle nostre esistenze quotidiane e totalmente priva di norme in settori chiave come la finanza o la produzione di sementi, antiparassitari e medicinali. Il recente matrimonio fra Bayer e Monsanto è solo la punta dell’iceberg di un sistema monopolistico globale di cui siamo tutti schiavi. Sono temi interessanti, ma largamente conosciuti da chi legge il Granello e preferisco addentrarmi su un terreno più sdrucciolevole e su un aspetto meno condiviso, a costo di passare per reazionario e conservatore (reagire non è sempre un male e conservare è un bel verbo,  che sa di pomodori e marmellate e si oppone alla filosofia dell’usa e getta).
Sono convinto che, in  questi tempi di drammatiche migrazioni siano proprio le regole alla base delle possibilità di accoglienza. Il vivere in Europa non deve essere, secondo me, questione di genetica o di provenienza, di ius sanguinis o ius loci, come dicono i giuristi, ma di adesione a un sistema di regole condivise. In altre parole, penso che qui possa venire e stare chi condivide con noi certi principi fondamentali, primi fra tutti la laicità dello stato, la libertà individuale, la parità fra i sessi, la non violenza, la serena promiscuità e il rispetto fra uomini e donne. Non perché ci si senta superiori o più civili di chi arriva, ma perché questa è la nostra storia, il regalo che abbiamo ricevuto, la nostra eredità, costruita con fatica immensa da chi ci ha preceduti. Abbiamo non solo il diritto, ma il preciso dovere di difenderla, questa nostra immeritata eredità.
L’accoglienza incondizionata è controproducente e suicida e ha come unico effetto quello di spingere l’opinione pubblica nelle braccia sempre aperte dei Salvini, dei Bossi e dei Trump di turno. Chi non lo capisce e sottovaluta i pericoli speculari e i problemi della diffusione strisciante di un Islam radicale e della inevitabile reazione di stampo razzista conosce poco la storia, per niente l’attualità ed è prigioniero di schemi mentali figli di epoche facili e sicure.
Magari è pure candido come una colomba, ma di certo non possiede l’astuzia del serpente. Forse, anzi, condivide con la talpa la visione offuscata.
Credo che sia assolutamente necessario ritrovare l’onestà della parola che traduce su carta i pensieri della mente, liberandoci dalle prigioni del politicamente corretto e dalle mille ipocrisie del buonismo di facciata.
C’è anche quello che chiamo “effetto Berlusconi” per incapacità di migliore definizione. Ai tempi dell’uomo di Arcore (brutta copia di quello di Pontassieve, edizione riveduta, ringiovanita e corretta di alcuni difetti di stampo e dotata di maggiore efficienza operativa) la magistratura era stata oggetto di pesanti attacchi da parte del Presidente e del suo clan. Per questo motivo, per quasi un ventennio, è stato impossibile criticare un magistrato, anche se ne aveva fatte di cotte e di crude, senza passare per un seguace dell’Unto dal Signore.
Allo stesso modo, oggi si preferisce non dire parole chiare sull’Islam, per evitare di essere confusi o arruolati nella massa dei razzisti padani o dei lepenisti d’oltralpe.
Senza capire che proprio questa poca chiarezza di linguaggio, questo chiamare “cultura” quello che, a volte, è solo maschilismo e sopraffazione, o religione quello che è fanatismo e oscurantismo è la causa principale della fortuna dei razzisti di turno o di chi semplicemente specula sulle paure di noi povera gente.
Perché “populista” ha oggi i connotati dell’insulto, ma non dobbiamo dimenticare che noi siamo popolo e che dobbiamo essere orgogliosi di esserlo, che l’eventuale verità è spesso preclusa ai dotti, agli esperti e agli intellettuali e riservata agli umili e ai semplici. Il popolo ha sovente vista migliore delle élite, se non altro perché gode di un punto di osservazione più ravvicinato rispetto ai problemi.
E non dobbiamo scordarci l’obbligo inderogabile di difendere la libertà prima di ogni altra cosa. Anni luce prima di qualsiasi pretesa dettata da qualsiasi credo religioso o politico (compreso quello che riteniamo “nostro”, naturalmente). Solo così faremo la volontà di quel Dio la cui unica scusa (per l’enorme massa di dolore e di male condensato nella storia, sparpagliato nella geografia e intrecciato con ogni vita) è averci creati liberi, aver addirittura preferito la nostra libertà al nostro bene.
Il fattore principale della miracolosa riuscita dello strano riformatorio di Annecy era, a detta del responsabile, la forza del gruppo, usata per “costringere” i nuovi inseriti ad adeguarsi al buon comportamento generale. Per questo, l’inserimento era sempre graduale, con piccoli numeri e tempi lunghi, in modo da permettere il raggiungimento degli standard ottimali di educazione e recupero.
Anche questo è un fattore da tener presente, perché la forza del gruppo è un fattore che funziona nei due sensi. Lo sa bene chi ha la disgrazia di fare l’insegnante in classi difficili, in cui una spirale perversa di maleducazione diffusa, indifferenza e addirittura violenza può creare situazioni quasi impossibili da recuperare.
L’Italia del terzo millennio è una classe difficile, con diffusi problemi di legalità, di sfruttamento, di caporalato, di mafia, di pessima politica, di corruzione endemica, di degrado sociale e ambientale. È ovvio che gli inserimenti debbano essere fatti con gradualità e attenzione e con la guida di regole rigorose, se non vogliamo arrivare a situazioni di decadenza civile e sociale recuperabili solo con enormi sofferenze. Come ben sa ogni insegnante di lungo corso, è molto facile “farsi scappar di mano” una classe ed è molto faticoso e a volte doloroso recuperarla.
Se guardiamo alla storia possiamo capire che i tempi di benessere diffuso, piena occupazione, welfare accettabile, libertà civili e politiche di cui abbiamo goduto sono non solo un’eccezione, ma un vero e proprio miracolo. Un regalo frutto di sforzi e sofferenze di chi ci ha preceduto (fra gli innumerevoli altri mi piace ricordare mio nonno materno, morto a Mauthausen per aver stampato, nella sua tipografia, parole non gradite al regime di allora). Dobbiamo almeno essere consapevoli di questa fortuna e riconoscenti di questo dono, e fare di tutto per conservare l’eredità e non dissiparla.
Viviamo in tempi difficili (frase che ogni generazione ha sempre pronunciato, dal mala tempora currunt dei romani in avanti) e per risolvere la situazione ci vorrebbe un miracolo.
Ma, come insegna il riformatorio di Annecy, i miracoli possono ancora succedere. Bisogna però volerli e attuare strategie efficaci e concrete per contribuire a realizzarli.
Far finta di essere buoni proprio non basta.

 

Cervasca, 22 settembre 2016, equinozio d’autunno

Pubblicato sul Granello di ottobre 016                                    lele viola