Relazione del Brandizzo 5 Borgo san Dalmazzo
Brandizzo 5 Borgo
Per chi, come me, ha radici nella Borgo dello scorso millennio, la parola “vicario” si identifica con don Viale Raimondo, il “prete giusto” raccontato da Nuto Revelli. Quand’ero bambino, negli anni sessanta, don Viale era per tutti i borgarini “nost Vicari” e il termine si era sovrapposto talmente all’uomo da fondersi con lui e diventare una cosa sola. Non era un sinonimo, ma un “sostantivo”, nel senso che traduceva in parole la sostanza della persona. Non si trattava quindi solo di un ruolo legato a un incarico e trasmissibile ai successivi incaricati, ma di una qualifica esistenziale: dopo di lui il termine si è affievolito fin quasi a sparire, quelli che l’hanno seguito erano solo più parroci.
“Vicario” era anche un appellativo a cui don Viale teneva tantissimo, un nome cucito addosso a lui come la veste talare coi suoi infiniti bottoni, da cui non si separava mai, neppure nelle gite in montagna, limitandosi – massimo della trasgressione – a raccoglierne i lembi inferiori e a farli uscire come per magia da una tasca per muoversi meglio su terreni impervi.
Curioso, fin da ragazzo, delle magie nascoste nelle parole, mi chiedevo cosa avesse di speciale il nostro parroco da essere definito con quel termine strano. Vicario è un sostituto, un delegato, ma chi sostituiva don Viale?
L’ho capito mezzo secolo dopo, leggendo la Relazione del Brandizzo, che inizia il resoconto di Borgo proprio con una frase che sembra rispondere alla mia antica domanda: “Eravi altre volte in questo luogo un’abazia famosa, la quale essendo stata unita al vescovado di Mondovì ne deriva che il parroco del Borgo sia sempre il vescovo di Mondovì”.
Dunque Borgo non “apparteneva” alla diocesi monregalese, come una parrocchia qualsiasi, ma aveva come parroco il vescovo stesso, il quale delegava, per l’appunto, un “vicario” a gestirla praticamente.
Parrocchia ricca, a metà Settecento, padrona di 3 molini e di una “resiga a acqua”, di tre “cassine immuni co’ suoi caseggi” e dei buoni incassi delle decime e del “laudemio”, una sorta di tassa pagata da “qualunque particolare forestiere che faccia acquisti di beni” nel territorio. Il vicario e i due cappellani potevano “godere dell’abitazione nel palazzo abbaziale” e di un ottimo stipendio, pagato “parte in denari, parte in grano e parte in vino”.
Altro richiamo dei tempi d’infanzia ritrovato nelle pagine del Brandizzo, la descrizione delle Confraternite e dei loro abiti. Il vestito bianco della Confraternita di donne intitolata a Santa Elisabetta, quello pure bianco degli uomini della Crociata, quello nero dei confratelli della Misericordia. Leggendo le parole dell’Intendente mi pare di rivedere mia nonna percorrere in processione le vie del paese con l’abito d’ordinanza e una candela in mano, attorniata da altre “vecchiette” (allora le vedevo così, anche se molte dovevano essere più giovani della mia età attuale). Nel testo dell’Intendente manca solo il velo giallo che distingueva, negli anni sessanta del novecento, le donne sposate dal candore immacolato del vestito delle nubili (e sul significato nascosto nei diversi colori ci sarebbe forse spazio per riflessioni di antropologi e semiologi).
L’impressione, a volte, è che la storia che consideriamo remota non sia poi cosa così lontana dalla nostra esperienza personale e che ci sia stata più discontinuità negli ultimi decenni che nei secoli precedenti. Per molti aspetti, sembra esserci meno distanza fra la Comunità descritta dal Brandizzo e il paese del primo dopoguerra piuttosto che fra quest’ultimo e l’attuale “città” di Borgo. Ma, forse, i nostri sono tempi troppo veloci, in cui gli anni pesano come decenni e i lustri come secoli ed è facile smarrire il confine fra esperienza, ricordo, memoria e storia.
Meglio perciò abbandonare il terreno infido di queste considerazioni estemporanee e le digressioni personali e ritornare alla solida concretezza della Relazione del Brandizzo, ripassando la parola ai ragazzi della 4F per altre brevi notizie sulla Borgo di metà Settecento.
Gli abitanti erano 2500. Il paese era quindi relativamente piccolo in confronto con comuni di media e alta valle, come Limone o Demonte, allora molto più popolosi. Anche la superficie comunale era piccola, meno di 5 mila giornate, contro estensioni 5 o 6 volte superiori di Demonte, Vinadio, Entracque, Cuneo. Il territorio era però intensamente coltivato: ben oltre la metà dei terreni era a seminativo, con buone produzioni di segale, frumento, avena, orzo. Molto estese erano anche le vigne e gli alteni, per un totale di 145 giornate che producevano oltre 160 mila litri di vino. Con 64 litri a testa all’anno per abitante, i vigneti di Borgo garantivano l’autosufficienza in campo enologico, oltre a rifornire la ventina di osterie del paese.
La Comunità ricavava la maggior parte dei suoi introiti affittando i forni e tassando la cottura del pane e la vendita del vino. Il commercio del prezioso liquido era molto regolamentato e il Brandizzo scrive che “niun brentatore può presentarsi sul mercato del vino” se non usando una brenta appositamente marcata, affittata a caro prezzo dall’ente pubblico. Trenta lire costava usare il recipiente regolamentare, cinque volte tanto l’affitto annuo di due stanze, da cui la Comunità ricavava solo sei lire.
Le discrete entrate erano assorbite dalle molte spese, dovute a debiti antichi e all’obbligo di mantenere “due o tre ponti, i quali gli sono di un forte dispendio”.
L’acqua che scorreva sul territorio era una ricchezza, ma anche una fonte di spese, corrosioni e danni. Un altro costo preventivato dall’Intendente era quello della “rinnovazione del cadastro”. Il vecchio catasto, spiega il Brandizzo, “è ridotto in stato da non poter più servire”.
L’obbligo di fare la “misura generale del territorio” è una costante che ritorna spesso nella Relazione. I vecchi catasti seicenteschi erano ormai superati, imprecisi, non aggiornati e soprattutto non censivano i beni comuni, limitandosi alle proprietà private o pubbliche. I Savoia volevano conoscere invece “tutto” il territorio per poterlo usare e tassare.
Il fatto che Borgo non fosse ancora dotato di un catasto valido conferma l’impressione che all’epoca non fosse una città, ma un paese di dimensioni modeste. La sua importanza commerciale derivava dalla posizione su vie di forte passaggio internazionale, più che da iniziative locali: “il commercio che passa per questa terra è grande…ma quello che quivi fassi è ben poco”. I borgarini compravano “biada da cavallo” dai contadini delle valli Stura e Grana e la rivendevano ai mulattieri di Limone e in paese vi erano “due o tre mercadanti” che commerciavano in stoffe e “grossi drappi”. Poca cosa, rispetto alla cittadina industriosa che sarebbe diventata nei secoli successivi.
Grande importanza aveva quella che ora chiamiamo “fiera fredda” che cadeva nel “giorno di san Dalmazzo, titolare del luogo” con un “gran traffico consistente in bestiami che concorrono da tutto il vicinato”. La fiera primaverile di san Giorgio, nata solo “da alcuni anni” era già allora meno sentita, tanto che “già era andata in disuso”.
La produzione di segale era di oltre 5000 quintali, quasi tripla rispetto al frumento. Molto importanti per l’alimentazione erano anche le 1200 giornate di castagneti che fornivano oltre diecimila emine di castagne bianche all’anno. Nel territorio vi erano “moltissime noci, molti alberi da frutta e molti mori celsi” che permettevano di produrre “300 rubbi di cocchetti”, cioè quasi 28 quintali annui dei leggeri bozzoli dei bachi da seta.
Le vacche erano 700, a cui si aggiungevano “400 bestie fra lanute e caprine”.
I “boschi da fuoco” occupavano 700 giornate di cui 140 in “regione chiamata bosco di Quinto” (sopra l’attuale Piano Quinto) che erano la parte di un vasto territorio boscato “posseduto per indiviso” insieme ai comuni di Roccasparvera e Gaiola.
L’articolo su Borgo è frutto del lavoro degli studenti della 4F dell’ITA Virginio-Donadio, in particolare di Nicole Giordano e di Serena Ciarma, insieme con gli insegnanti Anna Vivalda e Lele Viola. Pubblicato su La Guida del 7 aprile 2016