Una storia da raccontare (di Esterina Parola)

Esterina Parola era una persona speciale. Nata nel 1930, staffetta partigiana negli anni della guerra, titolare col marito prima del negozio e dell’osteria, poi dell’albergo del paese, era soprattutto la memoria storica di una comunità.
Ero andato a trovare Esterina nella sua casa di Valloriate e mi aveva parlato di agricoltura, allevamento, vita, emigrazione. Stavo per andarmene, contento del lungo e piacevole scambio di parole rallegrato dal calore della stufa a legna nella piccola cucina, ma Esterina mi aveva fermato: “Voglio ancora raccontare una storia, perché è proprio una storia da raccontare…”
Prima di lasciare la parola a Esterina è necessaria una breve introduzione.
Valloriate è stata terra di forte emigrazione fin da inizio novecento. Nel Censimento del 1931 quasi la metà della popolazione risultava temporaneamente assente. Uomini e donne partivano verso la Francia, dirigendosi quasi tutti nella zona di Hyères, dove trovavano lavoro nelle aziende agricole e floricole. Era molto apprezzata anche la manodopera femminile, più idonea per attività che richiedevano delicatezza e abilità manuale, come la raccolta delle ciliegie o dei fiori. La spinta a partire per fare le “lougate” (periodi di lavoro) era la necessità, ma per molti l’emigrazione temporanea diventava anche un’opportunità, non solo economica, ma anche personale e sociale. Per le donne si trattava anche di una possibilità concreta di emancipazione, che permetteva di sfuggire a un sistema di vincoli famigliari e sociali spesso pesante e discriminante. In alcuni casi, si trattava di vere e proprie “fughe d’amore” che consentivano alle ragazze povere di superare i divieti dei futuri suoceri, poco disposti ad accettare in famiglia una nuora che non portasse una dote consistente.
Non dobbiamo giudicare con gli occhi e la mentalità di oggi (e soprattutto, con le nostre pance troppo piene) la montagna di un tempo, classificando questi vincoli famigliari come retaggio di un medioevo non ancora superato. La possibilità di sopravvivenza della nuova famiglia dipendeva da terra e animali e con la successione ereditaria a quote pari ogni erede riceveva una porzione piccola dell’azienda paterna, incapace di garantire l’autosufficienza alimentare. La dote della sposa, che consisteva spesso in un campo, un prato, un bosco, contribuiva al ritorno a dimensioni aziendali in grado di mantenere il nuovo nucleo nato col matrimonio. La necessità di sopravvivere in tanti, in troppi, in un ambiente povero e ostile come la montagna imponeva regole durissime, che oggi ci sembrano crudeli e insensate, retaggio di una mentalità gretta, ma che erano dettate dal bisogno e dall’imperativo categorico di produrre il cibo per tutti. Per questo, ancora a inizio novecento, una ragazza di famiglia povera faticava a sposarsi e spesso coppie di ragazzi innamorati vedevano contrastato il loro progetto matrimoniale da questioni di contabilità fondiaria.
Scappare in Francia era l’occasione di evadere anche da questi divieti famigliari e di conquistare, insieme a un piccolo gruzzolo faticosamente guadagnato, il diritto a scegliersi il partner e realizzare il proprio progetto di vita.
La storia raccontata da Esterina ha per protagonista sua nonna Marieto, una ragazza bella, ma orfana e di famiglia poverissima, che amava, ricambiata, il bel Petoulìn. I genitori di Pietro non volevano però saperne di quel legame che avrebbe aggiunto miseria alla miseria. La loro era una famiglia più ricca, o meglio, meno povera, in tempi in cui la differenza la faceva una mucca, un prato, qualche albero di castagne, ed erano ben attenti alla solidità del loro piccolo patrimonio. Anche la scelta della sposa, allora, era un investimento da affidare alla saggezza dei vecchi e non certo alla passione spensierata di due ragazzi innamorati. E Marieto era di famiglia davvero povera: in casa erano in tredici, il padre era morto e non avevano beni.
Una storia triste, raccontata con vivacità e partecipazione da Esterina: lui, il padre, di vent’anni più vecchio della moglie, l’aveva vista in fasce, quella che sarebbe poi stata la sua sposa, mentre la portavano a battezzare. Uscendo di casa aveva incrociato il piccolo corteo di parenti diretti verso la chiesa col neonato. Come si usava allora, aveva chiesto: “Es en cristiàn o na cristiano?”, cioè, è un maschio o una femmina? e i parenti gli avevano risposto: “Es na cristiano”, per dire che, nascosta dalle fasce c’era una bambina. Per fare una battuta, il giovane aveva replicato che un giorno allora l’avrebbe sposata. Cosa che in effetti era proprio successa, nonostante la grande differenza d’età.
Come capita in casi simili, il maturo marito era geloso della moglie giovane a cui aveva regalato una vita dura e un figlio dopo l’altro, ogni anno, per poi morire, lasciando vedova e bambini nella povertà assoluta. Così Marieto, orfana e misera, non aveva dote. Lei si è innamorata di Petoulìn e Petoulìn era innamorato di lei, ma il padre del ragazzo non voleva assolutamente lasciarli sposare. Con la mentalità del tempo sarebbe stato davvero un cattivo affare.
Ma il mancato suocero non aveva fatto i conti con la determinazione dei due giovani, intenzionati a realizzare a ogni costo il loro sogno d’amore, e soprattutto con la forza d’animo della bella Marieto. I due fidanzati avevano deciso di fuggire in Francia, ma c’era il problema della legge che poteva perseguire Petoulìn, per il “rapimento” della ragazza. Allora Marieto, la sera prima di partire, si era recata al Sere, davanti alla casa del sindaco e l’aveva chiamato a gran voce: Materìn!. Quando l’interessato si era affacciato all’uscio la ragazza gli aveva detto: “Materìn, l’è pe nin Petoulìn che roba pe mi, l’è pe mi che robo Petoulìn”. E il sindaco aveva risposto: “Vai ben”: avrebbe testimoniato che era lei che voleva partire, non era lui che la “rubava”. In questo modo, con la parola del sindaco, nessuno avrebbe potuto perseguire il suo Petoulìn.
Marieto si era confidata con la madre, mettendola a conoscenza del suo progetto: “Me scapou coun Petoulìn”, mentre il ragazzo era stato ben attento a non destare sospetti in famiglia. Altri due amici erano nella loro stessa condizione e così avevano organizzato una fuga a quattro, approfittando della notte. Seguendo l’esempio di Marieto, anche Minichina aveva fatto una scappata fin al Sere da Materìn, per metterlo al corrente della fuga ed evitare grane al fidanzato. Così il giorno dopo, quando ormai i quattro amici erano lontani, il buon sindaco si era recato dai parenti a dare la notizia: “Marieta e Petoulìn soun partì e decò Toni e Minichina. Minichina a roubà Toni e Marieto a roubà Petoulìn” (Marietta e Pietro sono partiti e anche Toni e Domenica. Domenica ha rubato Toni e Marietta ha rubato Pietro).
Esterina aveva commentato che era una cosa che allora capitava sovente: era sempre la donna che “rubava” l’uomo, mai il contrario. A riprova che determinazione, spirito di iniziativa e voglia di riscatto erano e sono virtù spesso declinate al femminile.
La storia dei quattro amici in Francia è simile a quella di tanti altri emigrati. Il viaggio a piedi, il confine passato di notte, il lavoro nelle vigne e nei campi. Con la grande fortuna di poter restare uniti. I quattro amici avevano trovato lavoro insieme in un’azienda agraria e vivevano in una “rimisa”, una baracca per gli attrezzi dove, fra zappe e vanghe avevano messo per terra due paiase per dormire. E nella baracca, Marieto aveva partorito suo figlio. Aveva lavorato a cogliere verdura fino a poco prima insieme a Minichina, che quando si era accorta che l’amica stava male era corsa a procurarsi un po’ di paglia. Il bimbo era nato sul giaciglio improvvisato per terra, sano e bello, e quando era arrivato il dottore con la doma (calesse), chiamato dalla padrona era migliorata anche la sistemazione logistica. La signora aveva fatto portare un vero materasso, un bersò (culla) e vestitini ricamati per il neonato. Esterina ricorda le parole della nonna che raccontava il suo stupore davanti a tanta ricchezza e non osava usare gli abiti nuovi “roba tant di ric”.
L’amore rendeva sopportabile la miseria (che allora era cosa talmente normale da essere quasi scontata), la giovinezza e la compagnia facevano passare in fretta le lunghe giornate di lavoro nei campi. Al bambino avevano dato lo stesso nome del nonno, speranza di un futuro riappacificamento. Quasi una situazione felice, se non fosse stato per l’eterno problema dei migranti di ogni epoca: i papier. I quattro amici non potevano regolarizzare la loro situazione perché erano scappati senza documenti e non potevano averli per l’opposizione dei genitori. Non sapevano scrivere e quindi era impossibile anche solo comunicare con casa. Ma le notizie hanno buone gambe e sanno fare a meno di carta e penna. In tempi in cui mezzo paese lavorava e viveva per una parte dell’anno sulla Costa francese, le voci del lieto evento non ci avevano messo molto ad arrivare a Valloriate.
Così un giorno una vicina di casa entra a dare la notizia al capofamiglia: “siete diventato nonno, gli hanno messo il vostro nome, vi hanno portato ben rispetto…”. Come capitava spesso, la parte più importante della comunicazione era però quella non detta, ma affidata al gioco di sguardi, al tono, alla mimica facciale. Il messaggio della brava donna era chiaro e la risposta altrettanto: “Ora vado in comune e gli faccio scrivere dal segretario”. Ma la vicina non era ancora contenta: “Tocca a voi scrivere, siete capace, scrivetegli voi”.
La lettera era arrivata in Francia pochi giorni dopo, Petoulìn era andato dal padrone a farsela leggere. Il padre chiedeva se volevano i documenti per sposarsi, li avrebbe mandati tramite il prete: nessun commento, nessuna felicitazione, nessuna domanda, ma era comunque una mano tesa. In tempi di parole scarne e gesti bruschi (a nascondere spesso sentimenti profondi) era quasi un abbraccio. Esterina ricorda che per il matrimonio gli sposi si erano comprati un paio di scarponcini da lavoro e un vestito nero. La padrona aveva regalato a Marieto un foulard nero: “voleva darle un cappello, ma mia nonna non si sarebbe mai messa un cappello in testa, era roba da ricchi, ha preferito un foulard”.
Ultimo momento di suspence prima delle sospirate nozze, quando in comune a Lavandou l’impiegato si rifiuta di accettare Toni e Menichina come testimoni: erano lontani parenti, come quasi tutti in paese e, inoltre, non sapevano neppure firmare. La cerimonia rischiava di saltare, ma una corsa affannosa in strada e l’incontro fortuito con due italiani di Bergamo capaci di scrivere aveva risolto anche quest’ultima difficoltà.
Dopo qualche tempo il padre di lui, quello che si era opposto a tutti i costi al matrimonio, era caduto e si era fatto male, tanto da non riuscire più a lavorare. Allora aveva scritto al figlio se potevano tornare “per piacere, almeno uno”. E così erano tornati tutti tre al paese, alla casa e alla terra e la nuora non voluta aveva addolcito, con la sua pazienza e la sua premura, la vecchiaia del suocero.
Una storia a lieto fine, quindi, quella raccontata da Esterina, ma non un lieto fine “regalato” come quello dei film americani. Nessun miracolo e nessun “arrivano i nostri”. Tanta fatica, tanta determinazione, tanta voglia di costruirsi una vita migliore e più libera.
Esterina, seduta vicino alla stufa in quella fresca giornata di settembre del 2013 aveva concluso dicendo “Mia nonna Marieto mi raccontava questa storia, così come io l’ho raccontata a voi, perché questa è proprio una storia da raccontare…”.
Mi ero ripromesso di tornare altre volte ad ascoltarla, ma non l’avrei più rivista. Credo che questa storia che Esterina ha voluto raccontare ci sia dentro molto di lei: la mitezza unita alla determinazione, la voglia di libertà e indipendenza insieme alla serenità profonda di chi ha vissuto fino in fondo un’esistenza utile, coraggiosa, aperta e onesta.