Le storie e la Storia 4,5,6
Quattro
Passata la tempesta della grande epidemia di peste ci fu una notevole ripresa economica, agricola e demografica. E’ proprio a quel periodo di fine 1600 che risale la nascita di molte delle nostre borgate.
La risposta naturale alla crescita della popolazione in una società agricola basata sull’autosufficienza è un processo di espansione e di intensivizzazione. Si cerca cioè di procurarsi le maggiori quantità di cibo necessarie per i nuovi abitanti mettendo a coltura terreni non sfruttati in precedenza e usando tecniche che consentono di aumentare la resa di quelli già coltivati (irrigazione, concimazione, rotazioni, nuove colture).
In montagna, però, i terreni favorevoli allo sfruttamento agricolo per esposizione, pendenza, profondità, fertilità erano pochi e già utilizzati da tempi remoti e il processo di espansione si rivolse quindi ad appezzamenti marginali per motivi agronomici o per la lontananza dai paesi e la scarsa accessibilità. In genere si trattava di boschi, pascoli o gerbidi di proprietà “comune”, in precedenza utilizzati in maniera estensiva o del tutto trascurati.
In molti di questi luoghi lontani dal concentrico, esistevano già ricoveri temporanei di proprietà di famiglie del paese (definiti “foresti” nei Catasti cinquecenteschi di Demonte e in quello del 1639 di Aisone e “chiaboti” nel Catasto del 1669 di Pradleves).
Col crescere della popolazione diventò naturale espandere le coltivazioni nelle zone dei foresti e far diventare permanenti le dimore provvisorie. Con le divisioni ereditarie, nuove famiglie giovani si trasferirono stabilmente in quota e così sono nate molte delle nostre borgate. Spesso ognuna di esse è stata abitata fino a tempi recenti da nuclei con lo stesso cognome, a riprova dell’origine antica da ceppi famigliari unici (a Castelmagno troviamo Arneodo a Narbona, Martino e Demino a Campofei, Galliano a Riolavato; a Pradleves Ribero a Riosecco, Durando al Cougn…ma gli esempi sarebbero infiniti).
In valle Stura è il caso di Valloriate, che all’inizio del 1600 comprendeva solo una decina di borgate tutte concentrate nel fondo valle lungo il corso del rio, da Serre a Sonvilla. L’incremento demografico degli anni successivi portò al popolamento dei versanti, fino ad arrivare a 42 borgate densamente abitate e a un graduale spostamento di buona parte dei residenti nelle frazioni in quota. Secondo i dati parrocchiali, nel 1897 il comune toccava i 2122 abitanti, numero davvero alto rispetto alle potenzialità agricole del territorio.
Anche a Pradleves molte borgate sembrano risalire a questi anni di fine seicento, sempre per la trasformazione in insediamenti permanenti di preesistenti ricoveri provvisori, in seguito al dissodamento e alla messa a coltura di nuovi terreni in quota. Mentre nel secolo precedente la popolazione sembra concentrata nel capoluogo, nel 1720 Pradleves era già costituito da 7 borgate abitate in permanenza e nel 1733 gli abitanti delle borgate erano 340, contro i 573 residenti del concentrico. Era in corso un veloce spostamento della popolazione dal centro alle frazioni periferiche, per l’esigenza di presidiare ed utilizzare al meglio tutto il territorio.
Non tutte le borgate delle nostre valli risalgono al 1600: alcune sono ben più antiche, altre hanno visto la luce durante picco di popolazione di inizio ottocento. Per la maggior parte di esse non ci sono documenti che ne certifichino la nascita. Ma un buon numero dei nuclei che ora allietano le nostre passeggiate nella montagna antropizzata e contribuiscono a rendere armonico e vario il paesaggio sono la conseguenza della ripresa demografica successiva all’ecatombe della peste.
La vita è cocciuta e tenace, ha dentro energie nascoste che le consentono infinite resurrezioni: proprio come certe erbacce che più le si strappa più ricrescono rigogliose, anche le energie vitali di una popolazione sembrano moltiplicarsi dopo ogni batosta, guerra, carestia, pestilenza.
Le borgate si sono moltiplicate anche per la necessità di presidiare ogni angolo di territorio ed evitare inutili pendolarismi. Nell’economia montana del passato era assolutamente necessario sfruttare al massimo tutte le risorse, compreso il tempo e la forza lavoro, per arrivare a garantire a tutti il cibo quotidiano. Gli spostamenti di persone e foraggi erano onerosi e quindi era obbligatorio stabilirsi nel luogo ottimale per coltivare i campi, avere accesso ai pascoli, mantenere il bestiame, sfruttare il bosco, potersi rifornire di acqua, godere del sole, aver riparo da venti e inondazioni, disporre in loco delle pietre necessarie per la costruzione.
Ogni nuovo insediamento rispondeva a questi requisiti e nasceva tenendo conto di una molteplicità di fattori che in buona parte oggi ci sfuggono.
Oggi disponiamo di motori, case riscaldate, infrastrutture, collegamenti.
Ma eccessi di tecnologia e comodità possono facilmente far dimenticare la saggezza.
Cinque
C’è un filo conduttore che lega cose di oggi -le strisce blu in città, l’acqua gestita da società per azioni, la svendita di immense aree di terreno alle concessionarie autostradali, la sosta e i picnic a pagamento in quelli che chiamano parchi, la privatizzazione delle spiagge e via elencando- con molte delle storie che possiamo trovare nei testi di archivio. Un filo lungo diversi secoli, ma di cui possiamo seguire le tracce; un vero e proprio processo, nel senso etimologico di un qualcosa che progredisce, che avanza inesorabilmente nel tempo, che si fa strada, che non lascia scampo. Un qualcosa che corrode, erode, consuma, come un tarlo del legno. E il concetto del tarlo, della tignola, del parassita che scava, svuota, distrugge dall’interno è proprio quello che serve a capire quello che è capitato e ci sta ancora capitando: la progressiva erosione e monetizzazione dei beni comuni.
Per renderci conto di cosa stiamo parlando, bisogna fare un salto indietro nel tempo agli anni di fine seicento, quelli in cui si assisteva alla ripresa demografica dopo la strage della peste e alla nascita di molte borgate.
Ci possono aiutare i dati dei Catasti antichi conservati in alcuni archivi. Se analizziamo questi testi ci accorgiamo che solo una piccola frazione del territorio comunale era censita, spesso non più del 20%. E il resto? Il resto erano beni comuni.
Attenzione, però: beni comuni, non beni della Comunità, che è cosa ben diversa. Questi ultimi erano “di proprietà” della Comunità, che li affittava traendone un reddito, come avrebbe fatto qualsiasi soggetto privato. Erano soprattutto i grandi alpeggi, le “montagne” che rendevano ogni anno cifre consistenti. I beni comuni erano invece beni collettivi, il cui uso era libero per tutti i residenti, pur con le limitazioni di regole condivise di utilizzo. Sarebbe però errato dire che erano beni “di tutti”, in quanto l’effettivo godimento di pascoli, boschi e gerbidi era suddiviso in zone precise.
E’ proprio da questa delimitazione territoriale consuetudinaria che nascono le borgate.
La vita in montagna è stata possibile, per secoli, grazie ai “beni comuni” che consentivano ai “particolari”, in genere piccoli o piccolissimi proprietari, di sopravvivere. Pascoli e boschi comuni erano uno sfogo indispensabile e un necessario completamento delle poche “pezze” private coltivate da ogni famiglia e come tali erano sentiti “propri” e difesi da ingerenze esterne.
L’uso, la ripartizione, la difesa dei beni comuni erano regolati da norme consuetudinarie che risalivano a tempi molto antichi. Le Confratrie delle Spirito Santo e le Badie sono state due diverse organizzazioni nate per la gestione e la salvaguardia delle risorse collettive.
Con l’affermarsi del potere sabaudo e la crescita di una efficiente e capillare burocrazia si assiste nelle nostre valli al progressivo smantellamento dei secolari usi consuetudinari e dei relativi diritti e alla progressiva erosione di questi beni comuni. Centinaia di documenti d’archivio testimoniano di questa continua pressione, da parte del potere centrale, rappresentato dagli Intendenti (che erano a capo delle province, sia pure con delimitazione diversa dalle attuali) per obbligare le Comunità a “monetizzare” i loro beni, richiedendo un pagamento per l’utilizzo di ciò che un tempo era “comune” e quindi di libero accesso. Un vero e proprio bombardamento che prosegue nel corso di tutto il 1700 da parte degli Uffici di Regia Intendenza, volto a controllare minuziosamente entrate ed uscite delle Comunità e a spingerle a far fruttare tutte le risorse un tempo “comuni”.
Un lavorio instancabile, che ha avuto, alla lunga un effetto anche sulla stessa percezione del diritto e ha cambiato la nostra mentalità, provocando non solo la perdita materiale degli appezzamenti condivisi, ma soprattutto l’eclisse dello stesso concetto di bene comune. Un furto ai danni di tutti, fatto di piccoli, inavvertibili cambiamenti, iniziato almeno tre secoli fa e che prosegue ai giorni nostri.
Se per fare merenda al pian delle Gorre o vedere i Ciciu del Villar, per andare ad assistere un malato all’ospedale o parcheggiare l’auto vicino alla stazione ci tocca sborsare soldi (e ci pare pure normale) lo dobbiamo a questo scippo secolare dei nostri diritti. Lo stesso vale per questioni ancora più fondamentali e meno immediatamente percepibili, come l’acqua pubblica, la svendita dei beni demaniali, l’uso a pagamento dei luoghi di riunione, l’accesso ai beni culturali, la gestione monopolistica del sapere e della ricerca (pagata da tutti e sfruttata da qualcuno), la distruzione del paesaggio, il consumo insensato di suolo agricolo, la cementificazione selvaggia.
Il fatto che tolleriamo queste ed altre cose, senza neppure più un sussulto di indignazione, dipende anche dal fatto che hanno radici secolari. Non sono erbe di stagione, neppure solo infestanti perenni, come la gramigna. Hanno avuto trecento anni di tempo per entrare nell’uso, nelle norme, nel diritto e soprattutto nella testa di tutti noi.
Sei
Se dovessimo fare un’inchiesta su quale è la tassa più odiata dai cittadini avremmo probabilmente risposte differenti a seconda delle situazioni personali: Imu, Irpef, Tasi, Iva, imposta di successione… In genere la meno amata è sempre l’ultima, perché non ci abbiamo ancor fatto l’abitudine, ma ognuno ha qualche tributo che ritiene particolarmente ingiusto, odioso, intollerabile.
Se avessimo fatto la stessa domanda nei secoli scorsi in val Grana la risposta sarebbe stata, invece, probabilmente unanime: la tassa sul bestiame. Questo almeno traspare leggendo i verbali dei Consigli di diversi comuni per un periodo che abbraccia un paio di secoli, fino a tempi abbastanza recenti.
Come mai questa aperta avversione, per di più espressa in documenti ufficiali e sedute pubbliche, per uno dei tanti tributi che anche allora rovinavano l’esistenza dei cittadini? Non perché fosse più pesante o più vessatorio degli altri e neppure più ingiusto. In fondo, gli animali, soprattutto allora, erano un capitale, anzi “il” capitale, come ci spiega ancor oggi il termine piemontese “caviàl”. Erano un mezzo di sussistenza, ma anche un’indubbia ricchezza, e pagare in modo proporzionale alla ricchezza è il fondamento di ogni corretto sistema fiscale.
Il perché di questa particolare e tenace avversione, che si spinge fino a sfidare le autorità centrali in tempi in cui non era certo normale e indolore, lo dobbiamo cercare esaminando con attenzione le caratteristiche dell’imposta. In realtà, il tributo non aveva per oggetto il possesso del bestiame, ma il fatto che questo pascolasse su terreni comuni. Come si legge in diversi documenti, era una “tassa da fissarsi sul bestiame condotto al pascolo nei siti comunitari”. Era quindi in pratica un pagamento richiesto per l’utilizzo dei pascoli pubblici, voluto dal fisco centrale e per questo era vista come un’indebita sottrazione di un uso consuetudinario. Rappresentava la monetizzazione di un diritto antico e la sua progressiva trasformazione da bene di tutti, ad utilizzo condiviso, a fonte di reddito per le casse comunitarie e, di riflesso, statali.
La battaglia per non dover applicare l’imposta, contravvenendo ai decreti provinciali dura decenni. Ancora nel 1823 il comune di Pradleves decide di non imporre la richiesta “tassa su ogni capo di bestia che profitta dei pascoli”, adducendo la ragione che i pascoli stessi sono “mal distribuiti” cosa che favorirebbe alcune borgate a scapito di altre, rendendo ingiusto il tributo: “alcune borgate poco o nulla ne profittano, altre più e altre meno, una tassa regolare verrebbe ad essere per gli uni gravosa e lieve per gli altri”.
E quando, tre anni dopo, nel 1826, la Comunità deve cedere alle insistenze dell’Intendente ed approvare la nuova imposta, gli abitanti protestano a tal punto da obbligare il Consiglio ad abolirla. La scusa messa a verbale, questa
volta, è che la tassa sarebbe “irregolare per essere giornalmente il numero delle bestie variabile per i negozi e a seconda delle stagioni”. Solo nel 1827 Pradleves è costretto a cedere definitivamente agli ordini tassativi del potere centrale: deve smetterla di “aggirare” con scuse fantasiose l’odiata imposta e approva le tariffe per il bestiame condotto nei pascoli comuni, nella misura di dieci soldi per capo bovino, sette per ogni capra e tre per ogni pecora.
La stessa forte contestazione nei confronti del tributo si ha a Castelmagno in più riprese e fino a tempi recenti. La “taglia sul bestiame” che sfrutta pascoli comuni è introdotta nel comune dell’alta val Grana solo nel 1896 e fin dall’inizio suscita contrasti con le autorità centrali e polemiche fra gli abitanti.
Nel 1915, ad esempio, quando il Sindaco riferisce in Consiglio la necessità di aumentare le tariffe “tra i consiglieri nasce uno scompiglio tale…da creare una confusione indistricabile”. Non si riesce a riportare la calma e neppure la decisione di rimandare la seduta è facile e deve essere presa a maggioranza con votazione.
Nel 1921, addirittura, il comune di Castelmagno si rifiuta esplicitamente di obbedire a un’ingiunzione del Prefetto che imponeva di applicare la tassa sul bestiame almeno al minimo previsto dalla legge e fissa tariffe inferiori e quindi illegali. Il documento si dilunga sui motivi di questa inaudita disobbedienza civile, spiegando alle lontane autorità centrali che gli animali in montagna, soprattutto pecore e capre, non danno “reddito tale da sopportare quella tassa”, che “colpisce fin troppo duramente questa popolazione che da essi trae tutto il suo sostentamento”.
Molto diversa la situazione in valle Stura: negli Ordinati più antichi conservati nei comuni di Demonte, Aisone, Vinadio si trovano tracce di questo tributo senza che emergano particolari contestazioni. Nel verbale del Consiglio della Comunità di Demonte del 28 maggio 1601 si legge: “Le tasse di consegna sono le seguenti: per ogni bestia bovina ff 1, per ogni bestia mulatina ff 2, per ogni bestia porcina ff 2, per ogni bestia lanuta (soldi) 4.2, per ogni bestia caprina (soldi) 4.2”.
Il fatto che lo stesso tributo fosse accettato senza proteste già a fine 1500 in valle Stura e contestato ancora nel XIX secolo in val Grana testimonia come questo processo di monetizzazione e smantellamento dei beni comuni sia stato graduale e con tempistiche diverse, legate all’isolamento, al transito, all’importanza economica. Una valle corta e senza sbocchi come la val Grana ha conservato più a lungo questi valori tradizionali e consuetudinari, mentre la valle Stura, col suo flusso di traffico commerciale, l’importanza strategica e la presenza di centri importanti ha subito molto prima questa “espropriazione”.
Poter utilizzare liberamente i terreni comuni era in passato in montagna una questione di sopravvivenza, di libertà e di dignità. Per questo tali beni erano sentiti “propri” e difesi da ingerenze esterne. Era percepito come assurdo e ingiusto dover pagare per usarli in modo condiviso e la lotta degli abitanti della val Grana contro la tassazione sul bestiame va vista come una difesa inconscia di questi antichissimi diritti.
Ogni tanto ci farebbe bene ricordare di essere gli eredi di questi fieri montanari e trovare le energie per qualche sussulto di rabbia e di reazione contro il quotidiano esproprio di beni comuni che, ancora e soprattutto ai giorni nostri, stiamo vivendo.