Lanterne magiche e fili di seta

Bonaventura Nicolis conte di Brandizzo è stato Intendente Generale (una carica simile a quella dell’attuale Prefetto) dal 1750 al 1763 e ci ha lasciato una lunga Relazione “su ogni città e terra posta nella provincia di Cuneo”. Un documento di 800 pagine scritte di suo pugno e conservato nella Biblioteca Reale di Torino che arriva a noi grazie alla pazienza “certosina” della signora Angelberga Rollero Ferreri e all’opera di supervisione di Giuseppe Griseri. Un lavoro di trascrizione degno degli antichi amanuensi, frutto di innumerevoli viaggi a Torino, di panini mangiati in fretta e di lunghe ore alla macchina da scrivere, in epoche lontane dalle scorciatoie digitali.
Sia nella Relazione che in successive lettere e tabelle si possono trovare molti riferimenti al diffusissimo fenomeno dell’emigrazione stagionale. Gli abitanti delle alte valli e dei paesi situati nei valloni laterali erano spesso costretti, per sopravvivere nei mesi invernali, a cercare occupazione “scendendo in Piemonte”. Le attività più diffuse erano i lavori pesanti (“lavoro grosso”) nelle campagne della pianura: tagliare legna, potare, “roncare” la terra (cioè dissodare, da cui derivano i toponimi Ronchi, Roncato etc).
Il verbo usato dall’Intendente è “uscire”: ad Argentera gli abitanti “escono all’inverno per segare e travagliare intorno alla terra”, nella vicina Bersezio “i giovani escono all’inverno per andare in Piemonte, chi a pettinar le canape, chi a fare bosco”.
“Uscire” nel vocabolario dei giovani è ora associato ad altre occupazioni decisamente più piacevoli: si “esce” con la fidanzata, si esce la sera con gli amici, si esce il fine settimana per escursioni o gite. Allora era un uscire obbligato, dettato dalla crudele matematica che in ogni epoca definisce il confine tra povertà e miseria: in montagna, a quei tempi, si era in troppi e non c’era da mangiare per tutti. Stanno tornando, in questi nostri giorni di illusoria e forse passata opulenza, queste uscite obbligate alla ricerca di lavori e di prospettive di vita, da parte di giovani rigettati da una patria gretta, egoista e dalla vista corta, capace solo di regalare illusioni e conseguenti delusioni.
I montanari che allora scendevano in pianura d’inverno potevano offrire le loro braccia robuste, abituate ai lavori pesanti e la loro disperazione, che li obbligava ad accettare compensi modesti, spesso costituiti unicamente da un po’ di cibo e un riparo. Non era facile allora, come non è facile adesso, sfuggire alla maledizione della povertà diffusa che moltiplicava l’offerta di braccia e le armi di ricatto dei pochi possidenti.
Qualcuno, però, anche in questa difficile situazione era riuscito a trovare una via di fuga facendo affidamento non sulla robustezza fisica (merce allora tanto diffusa da essere inflazionata), ma sulla fantasia. Mentre tutti gli altri scendevano in autunno “in Piemonte” a zappare, cardare canapa e spaccare legna, “alcuni abitanti della borgata dei Bagni andavano in Spagna, in Danimarca e sino in Svezia, portando la lanterna magica; ora più non si avventurano tanto lontano, perché in molti paesi è stato loro vietato l’ingresso”.
Quando ho letto queste parole, quasi affogate in mezzo alle migliaia di dati e cifre che per ogni paese, con la pignoleria del contabile e l’occhio attento del proprietario terriero, ci snocciola il Brandizzo, ho avuto un sussulto. Colpa del fatto che quando studio o leggo non riesco mai a lasciare a casa la fantasia, o meglio, la capacità di immaginazione, compagna indispensabile di ogni viaggio nei libri e nei documenti antichi.
Pensare a contadini che partono a inizio 1700 da un vallone laterale dell’alta valle Stura e puntano verso nord, arrivando alla Danimarca e alla Svezia per proporre il loro spettacolo itinerante, quella “lanterna magica” lontana antenata del cinema, mi affascina e mi riempie di meraviglia e di domande senza risposta. Come avranno fatto con la lingua? e con il clima, e con le difficoltà burocratiche, e dove avranno alloggiato, quale sarà stato il loro bagaglio, chi avrà avuto l’idea…?
Gli emigranti della lanterna magica, con i loro viaggi in terre lontanissime, rivelano uno straordinario spirito di iniziativa, un coraggio non comune e un’intraprendenza davvero notevole. E anche una capacità di evadere dalle catene di un mondo in cui la via per la povera gente pareva segnata e obbligata, fatta di fatiche disumane e di sfruttamento.
L’esempio di quanto fosse pesante, allora, l’oppressione del lavoro e lo spettro della fame lo abbiamo quasi nelle stesse righe, riferite proprio alla medesima frazione dei Bagni di Vinadio. Poco prima di far cenno alla lanterna magica, l’Intendente ci informa che “una parte delle donne va a Cuneo a filare la strazza di seta”.
Per capire il significato di questa frase bisogna leggere un’altra lunga lettera dell’Intendente (che evidentemente amava l’arte dello scrivere e l’uso della penna) in cui parla della manifattura della seta.
La “strazza” della seta era un sottoprodotto della filatura meccanica ed era originata dalla rottura del filo che lo rendeva inservibile per la tessitura. Per poterla riutilizzare doveva essere prima cardata, operazione che in zona nessuno sapeva fare. Questo costringeva a svendere il prodotto in Francia, nei dintorni di Lione, dove vi erano “scardassieri” capaci di affrontare la difficile lavorazione. In seguito, arrivò a Cuneo dal Delfinato un artigiano portando con sé “certi istromenti chiamati scardassi” e non fu più necessario svendere all’estero la strazza, che poteva essere recuperata e poi filata sul posto.
La cardatura era un lavoro che produceva moltissima polvere fine che minava i polmoni degli addetti (“rovina lo stomaco degli scardassieri”), e la strazza cardata doveva poi essere filata manualmente, operazione che richiedeva l’abilità, la pazienza e la finezza delle dita femminili. L’artigiano francese stabilitosi a Cuneo “non conoscendo le donne del paese s’indirizzò a una terrazzana dei Bagni di Vinadio” perché filasse e le presentasse altre lavoranti, promettendole un premio per ogni filatrice che le avesse procurato.
Da questo primo casuale contatto nacque in quegli anni una vasta attività di filatura manuale che coinvolse anche le donne di frazioni e paesi vicini che avevano imparato il mestiere ai Bagni. Il lavoro veniva svolto inizialmente al proprio domicilio, ma presto le lavoranti preferirono trasferirsi direttamente a Cuneo, per evitare il lungo viaggio per prendere e consegnare la merce e i relativi problemi con i rapaci gabellieri dell’epoca.
Nella sua lunga lettera l’Intendente scrive che le filatrici dei Bagni, di Sambuco e di Aisone “vengono in Cuneo dopo compito il raccolto delle castagne, loché cade verso la festa dei Santi. Si affittano tra 5 o 6 una camera, ciascheduna ha la sua pentola dove fa cuocere la sua minestra e ivi passano 4 mesi circa. Altre poi, dopo fatto il raccolto delle castagne, si trattengono alle loro case per filare o il loro canape o la loro lana sino a Natale e poi vengono a passare i tre mesi di gennaio, febbraio e marzo.”
Col tempo, fra artigiani e filatrici si era stabilito un rapporto di fiducia e gli “scardassieri” francesi davano più volentieri a lavorare il loro prodotto cardato alle donne della valle Stura, piuttosto che a quelle di Bernezzo o della Chiusa, che se lo portavano a casa e a volte non lo restituivano. Oltre all’abilità nel fare il lavoro, la preferenza nasceva quindi anche dal fatto che le donne dei Bagni venivano a filare a Cuneo, sotto l’occhio vigile dei datori di lavoro.
Una ragione per cui le filatrici preferivano scendere a valle invece che lavorare a domicilio era legata al fatto che in città, con la loro fatica riuscivano ad assicurarsi la sopravvivenza “cosa che non potriano fare alle loro case”. Oltre al resto, al paese sarebbero state spesso sole perché “in quelle famiglie che non hanno pane a mangiare, pendente l’inverno, cominciano ad absentarsi gli uomini e vanno in Piemonte, chi in là e chi in qua, chi a roncare il terreno, chi a fare del bosco e chi anche a cercare la limosina”.
Altri motivi che spingevano le donne a questa emigrazione invernale erano la distanza da percorrere a piedi per prendere la strazza cardata e consegnare il prodotto filato e soprattutto la minaccia di vedersi sottrarre il già misero guadagno da “duganieri poco onorati che sono soliti esigere qualche retribuzione”. A questo proposito il Brandizzo, nelle insolite vesti di difensore dei poveri, commenta come questo prelievo, per quanto piccolo non potesse che essere sommamente gravoso “per questa gente che impiegano molti giorni a guadagnar pochi soldi” e interviene personalmente a diffidare gli esattori dal pretendere dazi non dovuti, minacciandoli di severe punizioni.
La paga per le filatrici era infatti davvero misera. Una donna “a travagliare tutto il giorno impiegherà quattro giorni a filare una libbra” (cioè meno di quattro etti, con una media inferiore a un etto di prodotto per giornata lavorativa). Le filatrici erano pagate dai 9 ai 15 soldi per libbra, la retribuzione normale era di dieci soldi. Per guadagnare una lira quelle povere donne erano quindi costrette a lavorare dall’alba al tramonto per otto giorni consecutivi.
In quegli anni a Cuneo grano e segale costavano oltre le 2 lire per emina, il che significa che il lavoro quotidiano di una donna bastava appena per comprare un chilo del cereale (ancora da macinare e trasformare in pane). La spesa giornaliera calcolata dall’esercito sabaudo per il vitto di un ufficiale era allora di due lire, ma a una filatrice occorrevano quindici giorni di fatica per mettere insieme quella cifra “lorda”. Dalla retribuzione bisognava infatti ancora detrarre l’affitto condiviso della stanza e l’acquisto di quel po’ di legname necessario alla cottura dei cibi. Il tutto senza contare che, se il padrone considerava mal fatto il lavoro, poteva “ritenere la mercede”, cioè semplicemente non pagare.
Già allora la montagna era considerata dai politici un serbatoio di risorse e manodopera a buon mercato e l’Intendente conclude la sua lunga riflessione dichiarando che “siccome queste manifatture danno poco guadagno…così devono essere introdotte in quei luoghi dove si vive con poca spesa”.
Una matematica che racconta, con la crudezza delle cifre esatte, una storia di sfruttamento e di grande miseria e ci fa capire meglio il tentativo di sfuggire a questa condanna ai lavori forzati, magari portando a spasso una lanterna magica fino ai confini del mondo.

Pubblicato su La Guida del 14 marzo 2014