Andare per borgate 6
“L’uomo non separi ciò che Dio ha unito”. Il monito evangelico vale a mio parere in molti altri aspetti del vivere e non solo nello stretto campo delle relazioni fra uomo e donna in cui l’abbiamo confinato. Agricoltura e allevamento, ad esempio, sono due settori inscindibili e interconnessi, la cui separazione porta innumerevoli guai. E’ il classico esempio di fattori complementari: insieme funzionano alla perfezione, aiutandosi e integrandosi l’uno con l’altro. Divisi creano problemi di difficile soluzione. Gli animali consumano risorse che l’uomo non saprebbe sfruttare (prati, pascoli) e danno in cambio preziosi prodotti (latte, carne, lavoro, lana, pellami) e concime organico. Un equilibrio perfetto, che ha garantito per secoli la fertilità ai nostri terreni e il sostentamento ai nostri antenati.
Solo l’epoca moderna ha spezzato questa unione con un vero e proprio divorzio dalle gravi conseguenze. L’agricoltura si è buttata nelle braccia della chimica cercando facile ma effimera fertilità dai concimi sintetici e l’allevamento si è ridotto a tristi lager in cui gli animali sono confinati lontani da erba, sole e natura. Con relativi problemi in entrambi i settori, dall’eutrofizzazione delle acque all’inquinamento delle falde, dalla “mucca pazza” alla qualità degli alimenti.
L’agricoltore di montagna invece era sempre anche allevatore e i due settori erano talmente uniti da prendere la forma di una vera e propria simbiosi.
L’analisi dei documenti degli Archivi comunali lo conferma in modo chiaro, dandoci cifre esatte – con la triste pignoleria degli accertamenti per scopi fiscali – sul numero di abitanti, la superficie delle aziende e la quantità e qualità di animali allevati.
Se leggiamo con attenzione questi dati, scopriamo che negli anni di inizio novecento la nostra montagna era sovrappopolata, rispetto alle potenzialità di un territorio scarsamente produttivo e impervio, in tempi in cui si viveva esclusivamente dei prodotti di un’agricoltura volta all’autosufficienza. In altre parole, i valligiani si riempivano la pancia solo con quello che riuscivano a spremere dal poco terreno che possedevano: non c’era la scorciatoia del supermercato. E la sopravvivenza era possibile solo grazie alla perfetta integrazione di coltivazione e allevamento.
La gente allora era molta, troppa, e il terreno era poco. A titolo di esempio, a inizio novecento a Rittana vivevano oltre 1400 persone (contro le 130 attuali). Nel 1928 dal Ruolo della tassa sul bestiame risultavano, sui 12 chilometri quadrati scarsi del Comune, 419 capi bovini, una settantina di asini e venti muli. Neppure un filo d’erba andava sprecato, anzi, si usavano spesso come foraggio le foglie di frassini e faggi. Confrontando questi dati con quelli dei diversi Censimenti, si nota che la superficie coltivata pro capite era molto piccola. Nel 1951, con gli abitanti dimezzati, era di appena 0,79 ettari, circa due giornate piemontesi per ogni addetto. A inizio secolo doveva superare di poco la giornata piemontese per abitante. Pochissima terra, quindi, e per di più avara, che doveva bastare a sfamare tante persone: senza un perfetto sfruttamento di tutte le risorse sarebbe stata la morte per fame.
Il “miracolo” della sopravvivenza in quelle condizioni era possibile solo grazie all’unione profonda ed equilibrata di agricoltura e allevamento, a una ottima conoscenza dell’ambiente e a buone tecniche colturali (oltre che a quantità di lavoro oggi difficilmente immaginabili).
Questi dati, nascosti nei preziosi documenti conservati negli Archivi comunali, se letti con attenzione, perdono l’aspetto arido dei numeri e ci raccontano molte cose. Ci fanno capire il perché dei mille muretti a secco costruiti con secolare fatica per rubare fazzoletti di terra pianeggiante ai pendii più scoscesi. O ci spiegano come mai certe borgate sono nate in posizioni apparentemente infelici: semplicemente perché non si potevano rovinare o sprecare i terreni migliori per esigenze costruttive, meno impellenti di quelle alimentari. E ci fanno anche comprendere la necessità di “inventarsi” tanti lavori artigianali, come la tessitura della canapa, capaci di integrare il magro bilancio famigliare.
Conoscere questi dati dovrebbe farci riflettere e ci permette di guardare con rispetto a questi nostri antenati, capaci di trarre tutto il possibile da un territorio difficile senza pregiudicarne l’utilizzo futuro, anzi, migliorandone la fertilità.
L’esatto contrario, purtroppo, di quello che facciamo spesso nei nostri tempi di pane facile e di sprechi generalizzati.