Ridatemi il voto!

Di nuovo clima di elezioni, nonostante i rigori da anticiclone siberiano di questo gelido inverno che ci ricordano il forte anticipo sui canonici tempi elettorali di tarda primavera. Lo si capisce dai manifesti con le facce sorridenti che stanno progressivamente sostituendo le pubblicità di telefonini, automobili superecologiche e biancheria intima, sfondo abituale dell’arredo urbano.
Manifesti tanti, ma novità ben poche.
Quasi tutte facce note, già viste, e questo è per me un primo elemento negativo. Mai che spunti un volto nuovo, fresco di idee ed emozioni, mai che arrivi un Obama nostrano a farci dimenticare i troppi Bush di provincia saldamente incollati alle loro comode e ben remunerate poltrone consigliari.
Altra constatazione deprimente è che tutte queste lenzuolate di colori e sorrisi accattivanti da parte di candidati di ogni razza e colore, tutto questo spreco di cellulosa incollata ai muri, direttamente o indirettamente lo paghiamo noi. Gli italiani avevano anni fa bocciato con un referendum il finanziamento pubblico ai partiti, ma, quel che era uscito dalla porta è rientrato subito dalla finestra, sotto forma di remunerazioni, liquidazioni, contributi o rimborsi elettorali. Ha solo cambiato nome.
Tutte facce sorridenti da far invidia alla pubblicità del Colgate, quelle degli aspiranti eletti che ci guardano dai cartelloni, in contrasto con le espressioni tutt’altro che beate dei passanti intirizziti. Perché, in effetti, c’è proprio poco da sorridere, di questi tempi. Non sorridono certo i cassaintegrati, i precari e le precarie (rispettivamente il 13 e il 25 per cento della forza lavoro), gli insegnanti alle prese con tagli che somigliano ad amputazioni e riforme da riformatorio, gli studenti senza futuro, i disoccupati, i licenziati, gli stranieri appesi al permesso di soggiorno, i “clandestini” condannati senza colpe, i pendolari stressati da ritardi e soppressioni, i pensionati sempre più poveri e via elencando…
Loro sì, quelli che ci guardano dai muri con aria rassicurante e amichevole, possono permettersi espressioni rilassate e facce distese. I reduci dalla passata legislatura, dopo quasi cinque anni di duro lavoro stanno per incassare centomila euro di meritata liquidazione, molto più di quanto vedrò mai io quando, novantenne, potrò andare finalmente in pensione. La cifra, calcolata sullo stipendio mensile (una miseria, poco più di diecimila euro) è stata raddoppiata con un blitz di ferragosto dall’amministrazione precedente. La nuova giunta, di segno politico opposto, si è ben guardata dal ritoccare la norma. A dimostrazione che, sulle cose che contano, c’è unità di intenti. Su stipendi, aumenti, bonus e privilegi si realizza in pieno il senso di quella brutta parola entrata nel nostro politichese: “bipartisan”: in piemontese: “tuti d’acordi”.
Mi disturbano i sorrisi spalmati sui muri, non solo perché sono la tangibile dimostrazione dell’insensibilità di chi ci governa per le nostre tribolazioni quotidiane, la prova della lontananza crescente fra amministrati e amministratori. Mi danno fastidio perché credo che il sorriso, l’atto del sorridere, sia una cosa seria, importante. In fondo, è una delle poche caratteristiche umane che ci differenziano dai cugini del regno animale. Il sorriso è dichiarazione di accoglienza, offerta di amicizia, segno di pace. Mette in relazione, è una forma di saluto, di benvenuto.
Ma dev’essere disinteressato, vero, leale, soprattutto spontaneo.
Altrimenti ricorda piuttosto il gesto subdolo dell’imbonitore, quello interessato del commerciante, o l’espressione falsa dell’ipocrita.
Sorrisi e manifesti a parte, mi pare che il clima elettorale sia fiacco e poco sentito dalla gente. Le ragioni sono tante e le colpe vanno equamente divise fra le parti in causa. L’indifferenza e la superficialità di molti cittadini fanno da controcanto all’insensibilità e alla cupidigia dei politici. La risultante è che partecipazione ed entusiasmo sono ai minimi storici. E questo non è certo un guadagno per la nostra stanca democrazia.
Non aiuta il fatto di dover votare con una delle peggiori leggi elettorali che mente umana abbia mai potuto concepire. Una legge che sembra fatta apposta per allontanare i cittadini dalla politica, per tenere in vita quei fantasmi che chiamiamo “partiti”, per centralizzare le decisioni che contano, creando gruppi di potere al riparo dalle scelte degli elettori.
Una legge che ci priva della possibilità di scegliere e che di fatto, toglie peso e importanza al voto.
Una legge che crea nel cittadino la frustrazione di non potersi esprimere neppure più nel sacrosanto momento delle elezioni e quindi alimenta l’astensionismo e la sfiducia. E fa venire il dubbio che sia proprio questa la volontà nascosta dietro la facciata: scoraggiare la partecipazione. In fondo, i cospicui rimborsi elettorali sono basati sul numero dei potenziali elettori, non dei votanti effettivi e la regola tacita della politica italiana del terzo millennio pare essere quella scritta sui tram: “non disturbare il manovratore”.
Dai manifesti, tutti i candidati ci rassicurano e ci lusingano con parole accorate e d’effetto. Son tutti dalla nostra parte, conoscono benissimo la nostra realtà e sono pronti a rappresentare i nostri interessi. Baratterei volentieri tutte queste chiacchiere sotto forma di slogan con una semplice promessa: “appena eletto farò di tutto per ridarti il voto, per cambiare questa orrenda legge elettorale”.
Lo so che non si tratta di elezioni politiche e che queste leggi non si fanno a Torino. Ma il fatto è che sono stufo di votare per il meno peggio invece che per il meglio, sono stanco di dover scegliere chi ha scelto qualcun altro, non mi piace che l’appuntamento elettorale sia trasformato in una costosa farsa, in un teatrino utile a dare al sistema una parvenza di democrazia.
Non mi pare, in fondo, una richiesta eccessiva. Non chiedo, come sarebbe logico, l’impegno di rifiutare i rimborsi elettorali, di portare stipendi e gratifiche a livelli meno scandalosi, di cancellare privilegi e prebende. Non pretendo neppure una dichiarazione giurata di onestà, di disinteresse o di abnegazione. Tanto meno di competenza. Ho imparato a diffidare di chi si fa sempre precedere da principi inossidabili e discorsi moralistici. Baratto semplicemente la mia preferenza con la garanzia di un impegno per restituirmi il voto. Quello vero. Quel diritto costituzionale inalienabile e fondamentale di scegliere chi mi rappresenta, di promuoverlo o bocciarlo con un segno di matita.
Scegliere chi voglio “io”, non chi ha scelto un lontano partito. Scegliere una persona che rappresenti le mie idee, le mie speranze, anche, perché no? le mie illusioni. Pronto a bocciarlo con un altro segno di penna cinque anni dopo se mi ha deluso, se mi ha tradito o anche solo se mi ha complicato troppo la vita.
Perché la parola “voto” ha anche il significato scolastico di “valutazione”, è il momento del giudizio, quello in cui il cittadino, eternamente calpestato, multato, condannato e vilipeso, diventa finalmente giudice. Ha finalmente il coltello, pardon, la matita dalla parte del manico.
Credo che l’astensionismo sia in ogni caso autolesionista. Andrò quindi a votare alle prossime elezioni, pur con tristezza e disgusto. Se non altro, per non darla vinta a chi ha studiato e voluto questa legge che toglie alla sfida elettorale buona parte del suo significato originario.
Per non fare un piacere a chi mi ha rubato il voto.

Pubblicato su La Guida del 5-2-010 col titolo “Bipartisan, tuti d’acordi”