Le api di Einstein

“Se l’ape scomparisse dalla faccia della terra all’uomo non resterebbero che quattro anni di vita”. Non si tratta di una delle solite previsioni allarmanti che ci arrivano periodicamente da profeti di sventura, giornaletti di divulgazione pseudo-scientifica a caccia di lettori e professionisti delle catastrofi prossime venture. Non è neppure una quartina di Nostradamus o uno dei soliti annunci dell’ennesima apocalisse in svendita. Chi si azzarda a pronosticare la prossima fine dell’umanità, e si spinge fino a quantificarne i tempi, è un tipo in genere ottimista e equilibrato (anche se eccentrico e un tantino distratto) e dotato di una mente sveglia e di una certa preparazione in ambito scientifico-matematico. Il suo nome è Albert Einstein.
La frase attribuita al genio della fisica è riportata dal prestigioso quotidiano Le Monde, in data giugno 2002, a commento della moria di api che aveva colpito gli alveari francesi, uccidendone un quarto. Con il consueto ritardo legato alla posizione marginale del cuneese e alla nostra fortunata provincialità, l’ecatombe è arrivata anche da noi.
Ne hanno parlato tutti i quotidiani nazionali, la Guida ha pubblicato un articolo in prima pagina la scorsa settimana.
La diagnosi della mortalità degli alveari non è facile, le cause sono diverse e complesse e si sommano fra di loro. Come succede sempre per i disastri ambientali, è molto difficile collegare fatti ed effetti, perché i fattori in gioco sono molti e interagiscono l’uno con l’altro. Nel caso dell’ape, gli spazi di bottinatura si riducono per colpa della monocultura agricola, dei cambiamenti climatici e della cementificazione selvaggia. Nuovi parassiti compaiono all’improvviso, senza che ci sia tempo per adattamenti evolutivi. La diffusione di malattie e predatori seguiva una volta il raggio naturale di volo e di sciamatura di una famiglia (circa tre chilometri). Ora acari e batteri si spostano coi jet, ogni problema si diffonde in tempo reale in tutto il pianeta. Così la Varroa, un ragnetto responsabile di molti dei guai attuali, è arrivato in tempi brevi dall’oriente, per la precisione dalla remota isola di Giava, mentre avrebbe impiegato ottocento anni a diffondersi con mezzi naturali. Una specie micidiale di Nosema, anch’essa di provenienza cinese, sembra in fase di diffusione.
La globalizzazione, dunque, fa male anche agli insetti e il commercio internazionale di api, associato all’imprevidenza ingorda di certi apicoltori nostrani, ha contribuito al diffondersi di problemi sanitari di difficile soluzione.
Una delle cause principali della strage sarebbe poi l’uso di insetticidi sistemici per la concia delle sementi. Il principio attivo incriminato ha un nome difficile: “imidaclopride” e appartiene alla famiglia dei neo-nicotinoidi, prodotti neurotossici di elevata efficacia.
Le parole chiave per capire il problema sono tre.
La prima è “sistemico” Indica un prodotto che la pianta assorbe e va in circolo. I moderni fitofarmaci (a differenza dei tradizionali antiparassitari) entrano “dentro” la pianta (rendendo inutile, ad esempio, sbucciare la frutta nell’illusione di eliminarne la tossicità). I semi conciati diffondono il veleno anche nel fiore e le api si portano a casa il polline, con cui alimentano la covata, che diventa una bomba a orologeria capace di una lenta strage.
Il secondo termine importante è “persistente”. I neo-nicotinoidi sono insetticidi che rimangono attivi per tempi lunghi, non si degradano, non cessano di funzionare. Il trifoglio ladino che segue il girasole conciato può ancora dare polline avvelenato. Problema analogo c’era stato per il famoso DDT e per l’atrazina, un diserbante tanto coriaceo da finire nelle falde e nei rubinetti dell’acqua potabile di mezza pianura padana.
La terza parola è “micidiale”. Bastano 70 grammi di prodotto per ettaro di girasole per assicurare l’efficacia insetticida per tutto il ciclo colturale, il che può dare un’idea della potenza e della pericolosità del principio attivo.
Non posso addentrarmi in questioni tecniche complesse, ma basta accennare che i fitofarmaci sono studiati sulla base di un “coefficiente di rischio” (H.Q) basato su un rapporto. Si considerano potenzialmente pericolosi prodotti con un risultato superiore a 50. Per l’imidaclopride il rapporto è 40.540.
I francesi hanno da tempo messo al bando questi prodotti su certe colture. In Italia, appelli, interrogazioni parlamentari e mozioni varie non hanno mai avuto alcuna risposta.
C’è una sorta di schizofrenia nella politica italiana relativa all’ambiente. Da una parte, normative astruse e paralizzanti, un igienismo esasperato ed eccessivo, un’attenzione maniacale a dettagli insignificanti. Dall’altra, e sulle cose che veramente contano, una colpevole disattenzione.
Il mugnaio non può più macinarmi il “mio” grano per via della “rintracciabilità”, il forno di Bellino ha dovuto chiudere perchè non era “a norma”, ispettori sanitari volano in elicottero a controllare che le cucine dei rifugi alpini siano regolarmente piastrellate, un assessore buontempone vuole farmi rottamare l’auto “come nuova” perché manca di una sigla sul libretto. E intanto le stesse normative permettono di mescolare ai semi veleni micidiali e persistenti e i piani regolatori seminano a spaglio tristi capannoni cancellando per sempre ettari di terreni fertili. Si progettano nuove infrastrutture devastanti, si fa strage di insetti e uccelli, si cementificano le sponde dei canali.
Viene quasi da pensare che molti amministratori e politici si ricordino della parola ambiente solo quando c’è da ricavarne un utile diretto o indiretto. Sembra che più che della qualità di aria e acqua molti si preoccupino dell’incremento del PIL, della buona salute dell’industria e delle entrate fiscali.
Einstein non era uno sprovveduto. Quando Churchill definiva con disprezzo Gandhi un fachiro mezzo nudo, lui rispondeva che le generazioni future avrebbero stentato a credere che un simile uomo avesse potuto calcare la terra. La storia si è incaricata di dimostrare al premier inglese che non si devono mai sottovalutare gli straccioni poco vestiti e ha reso giustizia all’ammirazione stupita del genio della fisica.
Se dunque Einstein aveva ragione, oltre che sulla curvatura dello spazio e sulla relatività del tempo, anche su questioni entomologiche non c’è molto da stare allegri.
Le api, come per altri aspetti i licheni, sono “indicatori biologici”, ci danno cioè un’informazione precisa sulla qualità dell’ambiente, lo fotografano meglio di quanto possano fare i discorsi dei politici, le statistiche dei tecnici, i grafici degli studiosi. La loro morte ci dice che c’è qualcosa che non va, è un campanello d’allarme da non sottovalutare. Ci dice che il territorio è malato grave, che l’equilibrio delicato dell’ecosistema è compromesso.
Non si tratta, quindi, solo di rinunciare al piacere del miele spalmato sul pane per colazione. Senza questi insetti sociali non ci sarebbe quasi più impollinazione con conseguenze gravissime per frutta e verdura e per tutto l’ecosistema. Si calcola che oltre ventimila specie di vegetali dipendano per la riproduzione da questi piccoli insetti.
Convivo con le api da 35 anni. Ho sempre amato osservare a primavera l’attività gioiosa delle bottinatrici, l’agitazione della sciamatura, la frenesia del raccolto.
Aprire un alveare è un rito che richiede calma e attenzione, un lavoro che è quasi una simbiosi fra uomo e insetto. Le normali cure e attenzioni consentivano fino a pochi anni fa di avere alveari sani e forti. Ora non è più così. L’ultima famiglia mi è morta l’autunno scorso. Questa primavera non ci saranno sciami appesi ai rami bassi del melo nel mio prato.

Cervasca, 5 marzo 2008
Pubblicato su La Guida del 21-3-08 col titolo: “Le api di Einstein e il forno di Bellino”